Il perdono e la luce di Gemma Calabresi Milite: «La memoria deve avere le gambe, deve camminare».

by Felice Sblendorio


La voce di Gemma Calabresi Milite è fiera e dolce come la sua figura. Il volto di questa grande donna del nostro Paese, dopo un lungo percorso di fede e perdono, ora riflette di una luce speciale. Dopo la sua tempesta, è una persona pacificata, libera dal rancore, dal male.

A cinquant’anni dalla morte di suo marito, il commissario di polizia Luigi Calabresi ucciso nella furia degli anni di piombo da un commando di Lotta Continua, racconta la sua storia di salvezza in un libro colmo di umanità e compassione: “La crepa e la luce” (Mondadori, 144 pagine, 17.50 euro).

Sono passati cinquant’anni da quel 17 maggio 1972. Che tempo è stato dalla morte di suo marito, Signora Gemma?

È stato un tempo lunghissimo. Oggi sono cinquant’anni, comunque, che lui non c’è più. Cinquant’anni di vita intensa, per me e la mia famiglia, fatta di incontri, processi, memoria. È una storia che cammina con noi perché io credo che la memoria sia importantissima per la vita di un Paese, così com’è stata fondamentale per la nostra famiglia. La memoria deve avere le gambe, deve camminare. Non può rimanere relegata per sempre al momento dell’ingiustizia o della disperazione.

Il suo Luigi è ancora con lei da cinquant’anni.

Ho scelto da subito di portarlo con noi nella vita di tutti i giorni. Bisognava onorare la sua memoria facendo rivivere i suoi valori, i suoi credo, le sue passioni, il suo humor, l’amore che aveva avuto per gli altri. Ho portato Gigi nella mia quotidianità e ho tramandato il suo ricordo ai miei figli, ai conoscenti e alla gente che ho incontrato. È stato un grande aiuto. Lui c’era, c’era sempre con noi. Gigi c’è sempre stato.

Si dice che il tempo, a volte, riesca a lenire il dolore.

Il tempo aiuta, certo. Io sono stata aiutata molto anche dal mio percorso di fede: che è stato essenziale, importantissimo. Ho superato il dolore attraverso una fede che sono certa di aver ricevuto pochi minuti dopo l’uccisione di Gigi. La fede non mi ha risparmiata dal dolore, ma l’ha riempito di significato, non mi ha fatta sentire sola, mi ha ridato la speranza e poi, piano piano, la gioia e la voglia di vivere. Quella fede è stata fondamentale per iniziare il mio percorso di perdono.

La memoria ha appuntamenti fissi, ineludibili: il 17 maggio, ogni anno, ritorna.

Ogni anno alle 9.15 guardo le lancette dell’orologio e mi dico: adesso. Penso a lui che esce, a lui che viene ucciso. Da parecchi anni vivo quel giorno con una certa serenità. Credo, però, di non aver mai saltato l’appuntamento con quell’orologio.

Lei ricorda ancora le sue ultime parole.

Sì. Quella mattina uscì, ma tornò subito a casa per cambiarsi la cravatta. Prima ne aveva una di seta rosa, poi la cambiò con una bianca. Mi chiese: come sto? Risposi bene e lui mi disse: «Questo è il simbolo della mia purezza».

Qual è l’aspetto più umano di suo marito che ricorda con più tenerezza?

Ce ne sono tanti: era molto tenero, affettuoso. La nostra, insieme, è stata una vita breve: non siamo nemmeno riusciti ad arrivare al terzo anniversario di matrimonio: mancavano 13 giorni. Uno dei ricordi più belli era quando Gigi ci faceva una crostata buonissima, oppure la pizza. La sua crostata era speciale: al centro, con la pasta avanzata, scriveva sulla marmellata “Gi e Ge”: Gigi e Gemma. È una cosa molto tenera che mi piace ricordare.

Luigi Calabresi è stato una delle tante vittime di una stagione di violenza e terrore. Dopo la Strage di Piazza Fontana e la morte di Pinelli diventò un simbolo, un bersaglio.

Il lavoro dei terroristi quando volevano colpire un obiettivo era disumanizzarlo, farlo diventare un simbolo o una cosa che poi si poteva abbattere con il consenso popolare. A forza di scritte, titoli sui giornali e slogan ripetevano bugie che poi diventavano verità. Quello che dico ai ragazzi, oggi, è di non essere mai gregge. Bisogna sempre mantenere un pensiero critico, libero, individuale. Bisogna capire, conoscere, sapere prima di giudicare. Il male, anche se fatto in gruppo, è sempre male. Non è meno male perché siamo in quindici o in mille a commetterlo.

Ezio Mauro ha scritto: «Uccidere un uomo in democrazia, nel cuore dell’Europa civile, è una cosa semplice se si supera l’orrore di stroncare una vita». Ha mai compreso come fu possibile, per molti, superare così facilmente quell’orrore?

Per me è impossibile comprendere una cosa del genere perché sono totalmente contraria alla violenza. Questa guerra, ad esempio, per me è una cosa terribile che ogni giorno mi porta a domandarmi il perché. Non sono mai riuscita a comprendere la violenza, nonostante le ideologie che in quegli anni potevano portare a uccidere. Anche oggi che ho fatto un percorso di perdono molto forte, non riesco a darmi una spiegazione.

Lei ha fatto il contrario di quello che facevano i terroristi con le proprie vittime: è riuscita a umanizzare i responsabili della morte di suo marito.

Esattamente un percorso contrario. Per anni ho pensato a quelle persone solamente come gli assassini di Gigi. Un giorno, però, un mio alunno mi chiese: perché muoiono sempre i buoni? Perché quando qualcuno muore diventa sempre buono? Gli dissi che bisogna sempre ricordare le cose buone e l’esempio positivo delle persone. Così ho pensato che anche gli assassini di mio marito non fossero solamente degli assassini. Erano stati sicuramente buoni padri, mariti, amici. Così ho riumanizzato ognuno di loro, donandogli una vita con tutte le sue sfaccettature.

Da quel momento non li ha più chiamati assassini.

No. Da tempo, per me, loro sono i responsabili dell’omicidio di mio marito. Mi sono detta: che diritto ho di relegare la loro vita all’atto più brutto che hanno commesso? Da quel momento ci sono state molte cose, li ho visti sotto un’altra ottica e col tempo sono riuscita a completare il mio percorso di perdono.

Il perdono è stata una forza, non una resa.

Il perdono è una grande forza. Qualcuno crede sia una debolezza, invece il perdono ti fa volare alto, ti fa vivere in pace e serenità con Dio e con l’umanità. Io sono ripartita dal necrologio di Gigi scelto all’epoca da mia madre. Recitava: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Avevo accettato di spezzare quella catena di odio con una parola di amore. Per anni non ho pensato a quelle parole, credevo che perdonare significasse tradire Gigi. Anni dopo le ho rilette diversamente. Gesù dice a suo Padre di perdonare, indica questa strada, perché lui in quel momento è un uomo. E per gli uomini è molto complesso, nel momento del dolore fisico, dell’abbandono, del tradimento o della calunnia, perdonare. Ma Gesù ci indica questa strada. Chiede al Padre di farlo al posto nostro, lasciando a noi il tempo del cammino. Dio l’aveva fatto per me, così io ho deciso intraprendere con il mio tempo quel percorso. Da quel momento non sono più tornata indietro.

Il perdono – scrive – è un ponte: ci si incontra a metà strada. Vi siete riconosciuti in alcuni casi con i responsabili?

Con Leonardo Marino. Mio figlio Mario, invece, ha parlato con Giorgio Pietrostefani. Non possiamo dire quello che si sono detti perché c’è una promessa. Io mi sento di dire che Dio è andato anche da lui. Dio va da tutti.

Spesso ha pianto per la sua solitudine. Non ha mai avuto il timore di perdersi in quella solitudine?

Ho avuto anni di pianto, sconforto, tristezza. Quando toccavo il fondo, però, pensavo a quell’esperienza avuta sul divano subito dopo la morte di Gigi quando ho sentito forte la presenza di Dio. Quella sensazione di forza e di pace, assurda in quel momento, è con me da cinquant’anni. Quando sono giù mi dico: Gemma lo sai che Dio esiste, l’hai sentito. Riparto sempre da quel momento.

Dal 2007, con l’uscita di “Spingendo la notte più in là” di suo figlio Mario, si è aperta una nuova pagina nel racconto degli anni di piombo: anche le vittime hanno avuto un loro spazio, una loro dignità narrativa.

Finalmente! Dopo il libro di Mario è come se molte vittime avessero aperto la porta del loro dolore, fossero uscite allo scoperto. È stata una cosa importantissima perché prima di quel libro nessuno osava: tutti eravamo chiusi nel nostro dolore. Mentre la tristezza e il dolore, come la gioia, vanno condivisi. E testimoniati. Se apri la porta della sofferenza scopri che non sei mai solo. Quel libro ha fatto nascere cose belle.

Una delle tante è stato l’incontro con la vedova Pinelli.

È stata molto importante quella stretta di mano con Licia Pinelli che Giorgio Napolitano ha voluto per cominciare un percorso di pacificazione. Appena l’ho saputo mi è mancato il fiato. Per anni, per certa opinione pubblica, siamo state due donne nemiche, ma non è mai stato così. C’è stato un rispetto silenzioso. Ho sempre pensato che anche in quella casa una sera non era più tornato un padre. Siamo accomunate dallo stesso dolore. La signora Licia l’ha compreso. Quando l’ho vista le ho detto: finalmente. Poi l’ho abbracciata. E lei mi ha detto: peccato non averlo fatto prima.

L’esempio etico e civile della sua famiglia è una lezione per il nostro Paese.

Da mio padre e da Gigi ho ereditato un forte senso dello Stato, delle Istituzioni, della Giustizia. Credo serva rispetto, sempre. Abbiamo rispettato le sentenze e non ci siamo espressi sulle grazie. La giustizia di un Paese non è un affare privato, non è l’affare della famiglia Calabresi.

Due anni fa ha buttato molti ritagli di giornale dell’epoca. La campagna di stampa contro Calabresi fu feroce: ha mai riletto quelle pagine?

No, non le ho più rilette. È una cosa superata, ora Gigi lo vedo nella felicità eterna. Scherzando un giorno gli ho detto: «Oh, datti da fare. Io sono qui che faccio fatica». Oggi non mi interessa più sapere, leggere.

Scrive che la morte, qualsiasi morte, esige silenzio. Il suo dolore, invece, non fu rispettato da tutti.

Ho ricordato quello che successe all’obitorio perché è stato doloroso: se qualcuno era lì e leggerà questo libro deve sapere che ha sbagliato. Urlare slogan e insulti contro una giovane donna che aveva appena perso suo marito è una cosa terribile. La morte, anche quella di un nemico, esige silenzio, merita rispetto. Spero che qualcuno di loro lo comprenda, anche cinquant’anni dopo.

Ancora oggi, come un reperto bellico, spunta qualche insulto sui muri contro il commissario Calabresi. Com’è possibile che quel rivolo di odio arrivi a noi così fuori tempo massimo?

Non lo so. Forse è gente che non sa oppure è dispiaciuta per la forte riabilitazione della figura di mio marito. A me viene da dire che è gente che non ha camminato. Uno che riscrive uno slogan di cinquant’anni fa è rimasto fermo. Se tu cammini, pur rimanendo nel tuo credo, sicuramente intuirai o scoprirai qualcosa di nuovo. Provo davvero un gran dispiacere per chi è bloccato a quel 1972.

Suo marito aveva trentaquattro anni quando è morto: era un giovane uomo. Fece appena in tempo a diventare padre. Ha mai pensato, invece, a che nonno sarebbe stato?

Tante volte. Sarebbe stato senz’altro un nonno tenero, un nonno che avrebbe letto le favole o le poesie ai suoi nipoti. A lui piacevano quelle di Trilussa, le leggeva sempre a Mario e Paolo quando erano nella culla. Loro erano lì, in silenzio, e lo guardavano. Credo avrebbe continuato così. Purtroppo, però, lo posso solo immaginare.

La ferita più grande, oggi, è non poter vivere il tempo della vecchiaia assieme?

È la più grande. Mi sono risposata con Tonino Milite, ma lui è mancato quando avevo 69 anni. È sicuramente un grosso peso non poter condividere la vecchiaia con qualcuno. L’unica gelosia che mi è rimasta è quella per le persone anziane che vedo sostenersi, aiutarsi, darsi la mano. Sì, loro li invidio un po’.

Anche nei suoi sogni lui è ancora giovane.

Sì, siamo giovani. In un sogno corriamo, corriamo forte perché c’è qualcuno che ci vuole uccidere. Anche in quel sogno so già che io mi salverò, e lui no.

Se potesse riportarlo in vita, cosa gli direbbe?

Gli direi: come mai quella mattina non ti sei guardato alle spalle? A me dicevi sempre di farlo. Non sarebbe cambiato nulla, e forse sarebbe stato anche peggio. Io spero che non si sia reso conto, altrimenti avrà pensato a noi a pochi metri da lì, soli. Credo che non sia riuscito a capire, lo spero tanto.

Lui gliel’aveva anticipato: mi colpiranno alle spalle.

Per questo aveva deciso di non andare in giro armato. La pistola era smontata, fra i maglioni.

La cover di questo libro è molto bella: Gemma e Luigi sono giovani, corrono, e lei sembra trascinarlo.

Lo trascino sempre con me. Questa foto mi ricorda, ancora una volta, che la memoria ha le gambe. Gigi me lo porto ogni giorno nella mia vita.

Che cosa pensa, oggi, guardando quella ragazza che sorride?

Voglio molto bene a quella ragazza. I pensieri brutti che ho fatto all’inizio oggi mi sembrano così umani per una vedova venticinquenne incinta del suo terzo figlio. Le direi che la vita vale la pena viverla. E di non preoccuparsi.

Non cambierebbe nulla, nonostante il dolore, di questa sua vita?

Nulla. Vedo tante vite tristi e piatte di persone che non sono contente e non riescono a capire quello che hanno. No, non la cambierei: ho conosciuto molta gente che mi ha voluto bene e vissuto con tante persone che mi hanno amata. È stata ricca la mia vita, con tanto dolore certo, ma non la cambierei.

Quando è morto il suo secondo marito si è arrabbiata con Dio.

Sì, è stato terribile. Di nuovo, all’improvviso, con una telefonata ho saputo che Tonino era morto. Mi sono molto arrabbiata perché mi ritrovavo nuovamente sola.

Il poeta e pittore Tonino Milite ha scritto dei suoi figli: «Amati da subito/misteriosamente miei».

I miei figli meritavano quel calore e quel colore nella loro vita. Tonino è stato generoso: lui, per gli altri, è sempre stato il marito della vedova Calabresi. Ci ha dato tanto, ha fatto sua la nostra vita e le nostre preoccupazioni. Ci ha insegnato nuovamente a vivere, ad amare.

In ogni crepa, nella vita, c’è sempre la possibilità di una luce?

La mia vita è una piccola testimonianza. In ogni crepa può sempre irrompere una luce: basta saperla aspettare, e accoglierla.

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