Se fossi Dio: la solitudine di Aldo Moro, animale e Cristo pubblico degli eventi

by Giammarco Di Biase

«[…] se fossi Dio
sarei anche invulnerabile e perfetto.
Allora non avrei paura affatto
così potrei gridare, e griderei senza ritegno
che è una porcheria
che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia.
Ecco la differenza che c’è tra noi e “gli innominabili”
di noi posso parlare perché so chi siamo,
e forse facciamo più schifo che spavento.
Di fronte al terrorismo o a chi si uccide c’è solo lo sgomento.»

Uomo come sono e fui” scriveva Cecco Angiolieri nel suo noto sonetto S’I’ fossi foco. Così emulava Giorgio Gaber nel suo brano alla quinta strofa di Se fossi Dio. E’ una sorta di eterno violento J’Accuse stile titolo dell’editoriale scritto dal giornalista e scrittore francese Émile Zola in forma di lettera aperta al presidente della Repubblica francese Félix Faure sul caso Dreyfus che ha interessato generazioni, e smantellato verità nel presente tra saggi e inserti storici. Il brano fu composto nell’agosto 1980 e doveva far parte dell’album Pressione bassa, ma la Carosello, casa discografica del cantautore, e la Dischi Ricordi che la distribuiva, temendo di subire il sequestro dell’intero LP a causa delle accuse e delle affermazioni contenute di un singolo brano, costrinsero Gaber a pubblicare Io se fossi Dio separatamente con la piccola etichetta di Sergio De Gennaro.

La rivoluzione si compie in mille modi, arte a tutto tondo ma soprattutto musica, lancio di singoli che subito cadranno in prescrizione per colpa delle cattive coscienze (per essere ricordati adesso nell’epoca vintage), saranno iscritti in un ambiente discriminato, abbietto, dove la beatitudine delle parole, la ricompensa di un popolo e di un’idea artistica passano per inettitudine proletaria e ignoranza fantapolitica. 

Ed eccoci qui, in questo clima anni ottanta, dove tutti abbracciavano politiche, ideali, imbracciavano armi, martirizzavano politici. Soprassediamo sul nostro tempo, giriamo il disco al contrario, presente facciamo diventare imperfetto, guardiamoci indietro: viaggio spazio tempo.

Siamo in una Roma ma soprattutto in Italia, in formato 12 pollici a 33 giri con un solo lato inciso.

Il cantautore nella sua feroce invettiva passa ad accusare un intero sistema politico, chi dai terroristi era stato suo malgrado colpito: nella fattispecie, il testo cita esplicitamente l’ex presidente Aldo Moro, lo statista assassinato nel 1978 dalle Brigate Rosse; dopo il misfatto, Moro fu dipinto dalla gran parte della stampa e della politica italiana come il più grande statista dal dopoguerra e Gaber volle ricordare come, da vivo, fosse considerato in ben altro modo dagli stessi critici ed avversari che ora ne tessevano le lodi.

La canzone dura circa 14 minuti e gli arrangiamenti sono curati dal chitarrista Sergio Farina e immaginate cosa accadde in Italia – la canzone, in Italia, come tutto il cantautorato italiano, Tenco, De Andrè, De Gregori, era ancora atto e azione e la differenza intrinseca tra i due termini non si conosceva, affonderebbero le tesi di Carmelo Bene forse? non si sa!

Soprattutto il brano, soprattutto i testi musicati, erano assolutamente l’equivalente di un gesto politico tanto quanto l’articolo francese più famoso e discusso, come dicevamo prima, di sempre. Pubblicato il 13 gennaio 1898 dal giornale socialista L’Aurore con lo scopo di denunciare pubblicamente i persecutori di Alfred Dreyfus, le irregolarità e le illegalità commesse nel corso del processo che lo vide condannato per alto tradimento, al centro di uno dei più famosi affaires della storia francese. Filippica in cui denunciano i nemici “della verità e della giustizia”. Tutto fuorché Anime Salve, come quelle di De Andrè e Fossati (ma siamo nel 1996, ed è già troppo tardi per trovarne, per risanare l’Italia di piazza Fontana, dell’omicidio Moro, gli anni di piombo, l’insorgenza del demonio pubblico e privato.

«Io se fossi Dio,
quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio,
c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire
che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana
è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana.
Io se fossi Dio,
un Dio incosciente enormemente saggio,
avrei anche il coraggio di andare dritto in galera,
ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora
quella faccia che era!»

Gaber non amava Moro, non lo amava come collante, non lo amava come significato e significante. Tanto che la parola Moro nella sua canzone è sbilenca, spenta, floscia, glabra e senza acconciatura, eretta onomatopeicamente a via crucis italiana (Bellocchio adesso lo filma con la croce sulle spalle come in una passione cristologica, prima lo filmò in “Buongiorno, notte” facendolo fuggire come in un film di Woody Allen sotto la pioggia nella notte -fosse mica uscito dalla bella epoque?) dagli stessi italiani qui è già esangue.

E’ vero L’accusa che fece maggior scalpore è rivolta al repentino stravolgimento delle valutazioni politiche, involontariamente favorito dalle incoscienti e colpevoli azioni dei terroristi che avevano consentito di elevare al ruolo di martiri personaggi il cui passato politico era, secondo l’autore, ben lungi dall’essere positivo. Quella di Gaber non è affatto una difesa nei confronti del terrorismo o dei suoi fautori ma una amareggiata e a tratti sardonica invettiva tesa a colpire ogni elemento della società italiana impregnato nella corruzione e nell’ipocrisia. Gaber lo conosciamo, è un giocatore, è uno che fa western con la parola, come in una canzone di Leonard Cohen concupita ardentemente nella colonna sonora de “I compari” di Altman. La discografia di Gaber è un gioco a poker, è la rapina della clemenza, è tabacco masticato in bocca, il vizio della burla che diventa messaggio: ipertesto.

Chi è un altro pioniere di questa rapina ai danni dell’ipocrisia, chi è il personaggio più sardonico di quell’Italia che spergiura e scopre vizi? Colui che, spartiacque di due mondi, riuscì nello stesso momento della sua carriera e della sua esistenza (che nella sua umanità coincidono assurdamente e potentemente!) a schifarsi di essere definito politico e che continuò a imporsi la parola e il mestiere di scrittore?

Ovviamente quel vizioso della critica, quel vizioso che rivoltava il mondo con le parole, era, è più che mai nella coscienza contemporanea italiana oggi, Leonardo Sciascia.

Non mancano gli attacchi ai partiti, come i radicali (accusati di occuparsi ormai, a suon di continue e ripetute proposte di referendum, solo di «idiozia che fa democrazia») o i socialisti (accusati invece di comportarsi in modo ambiguo nel gioco politico, stringendo «spensierate alleanze» ora con il resto della sinistra, ora con il centro, e a cui va il consiglio di ringraziare la «dilagante imbecillità»), più di dieci anni prima di Mani pulite.

Vi ricorda qualcosa? Sicuramente non è edificante ricongiungere il tutto storicamente e giornalisticamente all’Italia di oggi.

Il “Todo Modo” di Sciascia, Il Todo Modo che poi fu di Elio Petri.

«Io se fossi Dio,
maledirei davvero i giornalisti
e specialmente tutti,
che certamente non son brave persone
e dove cogli, cogli sempre bene.»

Forse, non è che stiamo parlando anche del giornalismo di oggi? (Ancora meno edificante, ancora più risibile!).

Il cantautore Gaber non risparmia nemmeno un salace attacco rivolto alla categoria dei giornalisti, accusati di tralasciare ogni dovere di critica sociale e politica, per indulgere morbosamente in notizie tragiche, allo scopo di scatenare facili pietismi e artificiose commozioni.

Ma dov’era Leonardo Sciascia quando c’era Moro?

20 dicembre 1979. Inizio dei lavori della Commissione Moro. Leonardo Sciascia è uno dei maggiori componenti.

Leonardo Sciascia che si faceva chiamare sempre scrittore e che detestava definirsi politicante, seppur pontificava una nuova politica in più occasioni -la politica che era nei suoi torti e nel suo dilettantismo stile bullo millenials passivo-aggressivo in quegli anni  in ogni suo scritto, codarda e pomposamente magniloquente. 

23 maggio. Giulio Andreotti viene ascoltato dalla Commissione Moro. Cosa accade prima della Commissione? Di cosa stiamo parlando? Collochiamo l’Italia in quei giorni (che sì, l’abbiamo già detto tante volte, è confusa come quella di oggi).

Antonio Iovane nel suo libro pubblicato dalla Minumum Fax nel 2021 con una copertina bellissima e tutta rossa, di cui dopo svelerò il titolo (perché ha dell’assurdo e sarà una sorpresa ad occhi aperti  e voglio lavorare in questo articolo anche io di sardonici colpi di scena e manomissioni temporali e narrative) è esaltato dalla cronologia che ne esce fuori, una ricostruzione precisissima di quel periodo allarmante eppure cosi tanto amato dai malinconici altruisti di oggi.

16 marzo, ore 9.15, 1978. In via Mario Fani, cito per intero i tempi riportati quasi per millesimo da Iannone, le Brigate rosse rapiscono il presidente della Dc Aldo Moro.

-Il papa e Eleonora Moro sono furibondi. Il papa che l’aveva benedetto, la moglie con cui era stato benedetto per l’eternità.-

Nell’agguato vengono uccisi i carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi e i tre poliziotti dell’auto di scorta Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. 18 marzo. Un gruppo di agenti di polizia bussa alla porta della base strategica delle Brigate Rosse in Via Gradoli 96 a Roma, nella zona della Cassia: via che ritornerà in questa storia in cui vi è insito il fato e simbolismi da lotteria farlocca. Nessuno risponde e gli agenti vanno via.

Ripetiamo a cantilena, Nessuno risponde e gli agenti vanno via.

22 marzo. Lo ‘ndranghetista Francesco Fonti racconta che quel giorno, su indicazione del boss Sebastiano Romeo, incontra il segretario della Dc Benigno Zaccagnini dal qualche riceve la richiesta di contribuire alla ricerca di Moro.

Cosa sta succedendo in Italia? Vari poteri collisi patteggiano, senza tenersi o darsi mai la mano da uomo a uomo. Ma perché Prodi, Andreotti, tanti altri segretari e politicanti, uomini prestigiosi, professori e accademici, saranno interrogati nella Commissione Moro dove siede Sciascia che odia l’ipocrisia e sta sempre attento alle parole, una per una – pur essendo un grande revisionista italiano della dialettica sua e di quella degli altri-  dopo essere rientrato in un partito che aveva abbandonato, il Partito Comunista italiano?

Leonardo Sciascia che tutti stavano riempiendo non sempre di lusinghe in scritti epistolari, colonne dei più grandi giornali, macchiati chi più e chi meno dal partitismo, (Montale dove era finito?) cosa faceva lì in mezzo?.

Leonardo Sciascia, che non simpatizzava per la Democrazia Italiana, spirito libero liberissimo, anticonformista, lucidissimo e impietoso, ex membro della Camera dei deputati della Repubblica italiana, drammaturgo, critico d’arte, ma soprattutto insegnante italiano di una scuola che abbiamo dimenticato (che faceva comunque soldati e gendarmi di valori  già fin troppo spenti) perché interrogava il professor Prodi che prende il posto di Carlo Donat- Cattin come ministro dell’Industria, commercio e artigiano nel quarto governo Andreotti?

Passo indietro. 25 marzo. Il comunicato numero 2 informa che le Brigate Rosse hanno cominciato il processo popolare contro Moro. Dopo quasi un mese il 15 aprile col comunicato numero 6 i sequestratori annunciano che il processo è finito, e che Aldo Moro è stato condannato a morte dal tribunale del popolo e il 9 maggio  Valerio Marucci chiama il collaboratore di Moro, Francesco Tritto, comunicando che le Brigate Rosse hanno ucciso il presidente del Dc e dove possono ritrovare il corpo in una chiamata piena di pietas che passerà alla Storia. Poco dopo, in via Caetani, viene trovato il corpo di Moro.

In mezzo, prima del 1981 e del 3 febbraio di quell’anno mentre Sciascia si contorceva, si innervosiva ed era incredulo e fumatore accanito dietro la Commissione Moro di cui era portatore sano in un dilemma di astri e di superstizione, prima della morte di Moro (e qui sta il fatto!) vi fu una seduta spiritica in casa di Albero Clò a Zappolino perché pioveva e non si poteva passeggiare nei giardini, proprio vicino Bologna. Partecipano i famosi dodici, dodici adulti, tra loro Romano Prodi e Baldassari.

In quella seduta spiritica (ma davvero? Il libro di Antonio Iovane si chiama proprio così “La seduta spiritica”) il 4 Aprile del 1978, nella sede della Dc  a Roma, Prodi segnala a Umberto Cavina, portavoce del partito cristiano, il nome Gradoli uscito fuori dalla magia del diletto e del gioco, una sorta di rapina di lettere e voci trapassate dell’anima di Don Luigi Sturzo del partito popolare italiano, insieme alle parole spiritiche Viterbo, VT, Bolsena, casa con cantina.

Soffiata della mafia, delle stesse brigate rosse che tradivano le brigate rosse, dei servizi segreti (addirittura) o fortuita anarchia spiritualizzante in nome di una Chiesa che depredava l’occulto ma che inconsapevole veniva aiutata da questi, come voleva essere aiutata nella follia la moglie di Moro Eleonora e tutta Italia?

Sappiamo benissimo che in quei giorni furono contattati enormi spiritisti, vittoriosi di ritrovamenti di infanti in un mondo depravato di voluttà che storpia innocenze.

Ma Moro, Aldo Moro, tutti lo cercavano, non aveva addosso più calunnie, la sua pace la portava come traditore prima, come profeta poi. Un Cristo che non è mai risorto.

Moro come stava, dove stava davvero prima che con il microfono di una doccia, dopo la sua morte, le Brigate Rosse allagarono il piano di sotto dell’appartamento dove vennero sventati e scoperti i fantasmi di un processo conclusosi?

Scriveva davvero le lettere lui a sua moglie e i suoi quaderni di prigionia o era circoscritto il suo verbo di narratore e di statista di un’Italia al verbo demoniaco e a più lingue piatte parlanti, un mostro di corruzione a più teste, delle Brigate Rosse?

Moro prima cattivo partito, tradito dopo per poi essere eclatante esempio, con un popolo di codardi falsamente interventista come lo erano i piani alti, Moro era un uomo davvero che si stava aiutando? L’Italia era efficiente nelle piste? Voleva davvero salvare Moro?

No. Moro era una uomo solo. Ad oggi è ricordato per la sua grande solitudine. Questo grande inverno che ha isolato una coscienza bistrattata, animale pubblico degli eventi. Fionda per sbilanciare e schizzare su uno Stato pazzoide.

Moro è il simbolo della condizione contemporanea. Moro è la sciarada, è la politica e il mondo italiano, un cane che si mangia la coda. E’ la metafora della confusione, la confusione oggi del nostro Paese malato.

Io se fossi Dio
La Terra la vedrei piuttosto da lontano
E forse non ce la farei ad accalorarmi
In questo scontro quotidiano
Io se fossi Dio
Non mi interesserei di odio e di vendetta
E neanche di perdono
Perché la lontananza è l’unica vendetta
È l’unico perdono
E allora
Va a finire che se fossi Dio
Io mi ritirerei in campagna
Come ho fatto io

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