“C’ero anch’io su quel treno”: Giovanni Rinaldi abita e ascolta i luoghi del passato dei bambini che unirono l’Italia

by La Magna Capitana

Tra il 1945 e il 1952, più di 70.000 bambini dal sud Italia, ma anche da Roma e da Napoli, figli di famiglie smembrate dalla povertà e dalla guerra, furono presi in carico da famiglie più fortunate del centro e del nord Italia. Una sorta di affidamento “spontaneo” mosso da un forte senso di solidarietà verso i più fragili, e coordinato egregiamente da donne militanti nel PCI, permise a tanti bambini di essere accolti, curati, vaccinati.

Arrivavano nelle nuove dimore scalzi, denutriti, sporchi. Non avevano mai visto il mare, non avevano mai mangiato un gelato, non avevano mai fatto un bagno caldo e non certo perché figli di madri degeneri, ma perché, se la povertà ti leva tutto, è lei che comanda.

Le donne, protagoniste e artefici di questa rete solidale, accompagnarono i bambini nelle nuove famiglie e ne seguirono l’inserimento. Con le Ferrovie dello Stato furono organizzate delle corse speciali. Treni pieni pieni di bambini viaggiavano verso l’Emilia, la Romagna, la Liguria…

Le donne, madri e compagne, fecero in modo che non venisse mai meno la comunicazione tra le famiglie di origine e quelle ospitanti, che non si perdesse mai il contatto. Non bisognava trovare una madre “nuova”, più curata e più ricca, che sostituisse quella naturale, si trattava piuttosto di porre rimedio alle ferite gravi che la guerra aveva lasciato. Bisognava soprattutto evitare che fossero i bambini, più vulnerabili per definizione, a pagare il prezzo più alto.

Questi figli piccoli, dunque, perdevano qualcosa del loro quotidiano, ma nel tempo sarebbero diventati più ricchi. S’arricchivano di nuovi affetti, nuovi parenti, nuovi saperi, nuove esperienze che mai avrebbero potuto fare diversamente. Scoprivano luoghi nuovi e modi altri per star al mondo. 

Sperimentavano insomma, alla fine degli anni 40, la “famiglia allargata”, ma senza conflitti personali o sociali, e senza risentimento. 

Il distacco

… le partenze, l’abbandono sembrano essere tasselli ricorrenti nella vita, passaggi obbligati della nostra storia, quella privata e quella sociale, che determina e muta le sorti di un paese e della sua gente. Andiamo via quando è insostenibile restare fermi, quando è necessario cercare altrove quello che ci manca.

Siamo disposti a separarci da ciò che più ci è caro, da chi ci ama. Abbandoniamo il nido e voliamo lontano senza sapere se questo volo ci porterà fortuna o ci costerà la vita. Una immagine tanto banale quando straziante, ma vera. Molto spesso non ci è dato scegliere. È  accaduto nella storia, lo sappiamo, lo studiamo sui libri; è accaduto a noi. E continua ad accadere. Chi non si trova  in quelle condizione di povertà estrema, di privazione del minimo utile alla sopravvivenza, stenta a capire. Non sempre sappiamo metterci nei panni altrui. Non sempre siamo o siamo stati accoglienti. Mi faccio carico delle mancanze di chi – per non aver compreso o non aver voluto comprendere, per paura o diffidenza – ha chiuso porte, alzato muri, respinto, scacciato via.

Nella storie che ci racconta Giovanni Rinaldi, no, questo non accade.

C’è un’Italia bella in questo libro, un paese distante temporalmente ed eticamente da quello che abitiamo oggi, un paese sfilacciato dalla guerra che porta in sé segni profondi forse inguaribili, eppure che si dedica all’altro, che guarda fuori da sé, che cura il più bisognoso per curare tutti. Che prova a ridimensionare il divario tra poverissimi e poveri, che offre quello che può a chi non possiede niente.

Giovanni Rinaldi mette da parte vanità personali e professionali, e si pone a completo servizio dei suoi interlocutori. Abita i luoghi del passato con garbo. Diventa parte della famiglia, della comunità, del gruppo. Stringe rapporti di fiducia reciproca con ogni singola persona con la quale di volta in volta entra in relazione, e l’accoglie. L’ascolta.

Non si racconta la propria vita a chiunque, per certe cose non si ha fiducia di nessuno, neanche del prete o del medico condotto.

Ma queste persone ora anziane hanno voglia di raccontare cose che in alcuni casi non sono mai state dette a nessuno.

Ascoltare  è più difficile che scrivere. Presuppone che vi sia attenzione, che l’io di chi ascolta resti al suo posto, non ingombri, non si sovrapponga ai fatti; che la propria voce non sostituisca la “voce” dell’altro, e le proprie intenzioni non scalzino in curva le ragioni dell’altro, e le parole che vorremmo sentirci dire non prendano il sopravvento su quelle  vere, forti, che invece c’arrivano. Bisogna essere invisibili per ascoltare, impalpabili, ma assorbenti come una spugna naturale. Trasparenti e in asse, ma affamati. Curiosi ma senza voyeurismo morboso e senza doppi fini.

Ascoltare

nel lavoro di Rinaldi, non è una parola qualsiasi: è la prima tessera della sua ricerca.

Quel che viene poi è la trascrizione, ovvero la “traduzione” in parola scritta del racconto orale, che deve restare fedele a se stesso, non può diventare un’altra cosa, benché parola orale e pagina scritta, io credo, appartengano a due universi distinti che fanno vibrare per lo più sensi diversi.

Ecco, Giovanni Rinaldi attraverso la pagina accorcia le distanze tra questi due mondi e restituisce ai testimoni le loro stesse storie. Sono testimoni alle volte analfabeti, custodi inconsapevoli di pietre preziose, altre volte colti di una cultura che non si misura in titoli di studio, che appartiene alla terra, al lavoro, alla lotta, alla resistenza, alla dignità conquistata e difesa per sempre, cose che faticano a entrare in un libro e a restare ferme là.

E allora che vadano pure, libere.

Vanno, arrivano lontano, fanno dei giri assurdi, poi tornano indietro. Sono le storie adesso a viaggiare, a farsi conoscere e ri/conoscere, a ricomporre famiglie, legami, a intercettare altri bambini di ieri – c’erano anche loro su quel treno – e ad arrivare, poi, fino a noi, noi tutti lettori più o meno bulimici, più o meno distratti, onnivori, ma in grado d’apprezzare l’autenticità di queste voci e il coraggio che ci vuole.

In un paese in cui tutti hanno sempre da dire, Giovanni Rinaldi si ferma e ascolta. Aspetta e lascia parlare gli altri. Rende così noto un capitolo di storia che pochissimi conoscono. Gliene saremo grati, da ora in poi.

La storia a questo serve: a fare i conti col passato, con la colpa e con le nostre coscienze, a volte marchiate indelebilmente e in eterno. Serve anche, però, a ricordarci che l’uomo – donne, per lo più, in questo caso – è capace a far bene. Siamo stati capaci a fare del bene. Dunque, se è successo, può succedere ancora.

“Ci sono interi pezzi della storia d’Italia che gli italiani non conoscono, e sono i pezzi migliori, della solidarietà, dell’amicizia, del sacrificio e li abbiamo buttati nel dimenticatoio. Senza quella storia non avremmo l’Italia e io, nel bene e nel male, a questo paese ci tengo.”

Miriam Mafai

Roberta Pilar Jarussi

bibliotecaria

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