Chiara Gamberale, “Il grembo paterno” e il gioco degli specchi

by Enrico Ciccarelli

La bellezza di incontrare Chiara Gamberale e ascoltarla parlare del suo ultimo libro, Il grembo paterno, uscito a ottobre per Feltrinelli, consiste soprattutto nel piacere di osservare le sue mani irrequiete, che si muovono continuamente e in anticipo rispetto al labiale, a testimonianza di una tempestosa e ridente vocazione al pensiero, all’esplorazione di sé e degli altri, al desiderio di afferrare qualcosa di momentaneo e irripetibile. Spesso i romanzi di Gamberale somigliano al suo gesticolare: vi avvengono molte cose prossime e remote, vi risuonano diverse lingue e registri, e le regole del melò si frastagliano e si contaminano con il bilsdungroman, il romanzo di formazione, la suggestione psicoanalitica alle dicotomie sociali e generazionali.

Non fa eccezione quest’ultimo romanzo, protagonista sabato scorso dell’ultimo incontro della rassegna Fuori gli autori, organizzata dalla Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” e dal Consorzio Teatro Pubblico Pugliese in collaborazione con la libreria “Ubik”. Per narrare le 240 pagine scarse del volume Chiara si avvale del talento, della bella voce e del bel sembiante dell’attrice veronese Elettra Mallaby, che legge brani del libro non preventivamente concordati, dando una veste di freschezza e di improvvisazione a un filo narrativo che l’autrice annoda in realtà con tutta la sua consumata esperienza di conduttrice radiofonica e televisiva.

Il plot, nella sua scarna rappresentazione, è quasi seriale, come vorrebbe il luogo comune della scrittrice di romanzi d’amore che leggono anche gli uomini, secondo l’ambiguo e improvvido slogan promozionale appioppato a Gamberale da uno dei suoi primi editori: Adele, madre single della piccola Frida, si innamora perdutamente, ricambiata, del pediatra di sua figlia, il brillante Nicola, narciso sposatissimo e d’eloquio fiorito. Questo amore santo e ladro rimetterà la giovane Adele in contatto con le sue radici, i suoi tormenti adolescenziali e il rapporto controverso con suo padre Rocco, scorbutico self made man che ha votato la sua vita, riuscendovi a procurare prosperità alla sua famiglia traendosi dalla sua condizione di miseria.

Storia non certo memorabile, tale da non avere bisogno di spoiler per conoscerne la conclusione. Ma questo se dovessimo credere che la letteratura siano le storie che racconta, il meccano dell’ingegno narrativo. In realtà questo scarno schema da dozzina apre un formidabile gioco delle diadi, degli accostamenti giustapposti o contrapposti. Quelli più facili sono quelli fra Adele e Chiara: se Flaubert poteva dire senza tema di smentita di essere Madame Bovary, figuratevi se Gamberale non è Adele, che la rammemora nelle origini in un piccolo centro meridionale (molisano per Chiara, solo il Paese per Adele), nelle attività di conduttrice televisiva (la protagonista del libro si trova quasi per caso a condurre un programma denominato con deplorevole calembour L’adelescenza) e probabilmente in qualche vicenda sentimentale non coronata dall’happy end.

Ma sono ancora più forti le diadi fra il Paese e Roma, la più grande di tutte le città, fra l’universo chiuso e pettegolo del piccolo centro che tormenta Adele e la sua famiglia con lo sprezzante nomignolo dei Senzaniente, che allude alla loro antica miseria, e la solitudine metropolitana della capitale. E i contrasti pedagogici, con il pediatra Nicola, padre dialogante, amicone della figlia undicenne, rispetto al rustico Rocco, tutto severità e senso del dovere.

Ma anche quello di Adele stessa, divenuta amante e complice di adulterio, rispetto a Rita, l’esecrata e temuta amante di suo padre. E ancora quello fra Adele adolescente tormentata dalla bulimia (Adele grassa) e l’Adele madre affettuosa e responsabile (Adele magra); e tanti altri giochi di specchi per un bouquet assai vario, profumato ed ambiguo. Per capire la natura duplice e polimorfa dell’ultimo libro di Gamberale merita dare un’occhiata alle epigrafi iniziali: la dedica a Vita, come tutto, per l’adorata figlia dell’autrice, e soprattutto le due citazioni: una di Donald Winnicott, nume della psicoanalisi pediatrica, l’uomo che ha dato dignità accademica e scientifica alla coperta di Linus (l’oggetto transizionale) e una canzone di Marcella Bella, colonna sonora nazionalpopolare di tante ragazze degli anni Settanta.

Cultura alta e di massa, registri intimistici e vicende collettive, antropologia e sociologia nel tessuto di una scrittura sempre elegante e appropriata, lontana sia dalle melensaggini del sentimentalismo che dalle sentenze dei moralisti. Un gioco di prestigio riuscito, incorniciato dalla magnifica foto di copertina (opera dell’intensa fotografa romana Dayana Montesano), che nella sua composizione allude all’idea narrativa più potente del libro: che il riedere di Adele, il tornare onirico alla sua infanzia cominci nella notte dell’8 marzo del 2020, poco prima che si annunciasse all’Italia e all’Occidente quella devastante e crudele pandemia che, come poche altre date nella storia, segna un incolmabile solco fra il prima e il dopo, fra lo ieri che ci rassicurava e il domani di cui siamo incerti. Grande libro, grande scrittrice, grande serata.

(nel video, l’intervista a Chiara Gamberale. È un po’ lunga, ma mi è piaciuto tanto farla che non ho avuto cuore di tagliarla. Portate pazienza: sono cinque minuti spesi bene)

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