Con in bocca il sapore del mondo: i dieci poeti di Fabio Stassi

by Felice Sblendorio

“Ma soprattutto, come un francobollo, la poesia è fatta per andare per il mondo, affrancare un messaggio, una lettera, una cartolina. E forse per redimere la voce di chi la scrive, per restituirgli tutta la libertà che la vita ci toglie”. Le parole di Fabio Stassi nei panni di Aldo Palazzeschi sono più di un sunto del bellissimo, e prezioso, libro finalista al premio “Leggo Quindi Sono” che si intitola “Con in bocca il sapore del mondo” (minimum fax, 150 pagine, 14 euro).

Sono parole che trattengono l’anima e la qualità di un esperimento difficile e ambizioso, quello di raccontare le vite e le opere di dieci fra i più grandi poeti italiani del secolo scorso: Caldarelli, Montale, Quasimodo, Gozzano, D’Annunzio, Campana, Saba, Palazzeschi, Ungaretti, Merini. In un Paese che ha colpevolmente relegato la poesia a pietra di scarto del mondo editoriale e letterario, questo lieve libro di Stassi restituisce tutta la dignità della poesia. Come l’avventura più spericolata sotto l’augurio di una stella e di una luna a proteggere, l’autore racconta questi poeti in una singola o in più istantanee, in un lampo di vita che sembra perduto (o banale) e invece non lo è. Trasforma la vita, la banalità delle cose elementari, in una prosa che coinvolge il lettore al punto tale da dimenticare o addirittura travalicare il confine tra finzione e realtà.

E se un poeta, come scrisse Bufalino, è “simile a un colombo viaggiatore che porta sotto l’ala un messaggio che ignora”, Stassi si immola e, senza timori nella scrittura, cerca di interpretare il messaggio più autentico di ogni vita, quello che riscrive e cerca di comporre la parte di un tutto più grande, più esteso. Senza ignorare la magica illustrazione di Patrizio Marini in copertina, questo libro-giostra dell’autore romano riesce a centrare l’obiettivo più arduo: trovare una voce comune, condivisa. La prima persona utilizzata, che coinvolge tutti i poeti, diventa un esercizio diviso fra stile e cuore, eleganza e generosità. Non eccede nel sentimentalismo e non si sottrae a guardare nel pozzo oscuro delle vite di questi grandi scrittori dall’interno dei loro sentimenti: successi, fallimenti, incubi, amori, pazzie. In un caleidoscopio dell’umano essere, Fabio Stassi restituisce con una potenza gentile la vita e l’opera di questi maestri del Novecento disponibili ancora oggi a indicare una via, a testimoniare l’essenza inquieta, mutevole e condizionante del mistero umano. bonculture ha intervistato Fabio Stassi.

Con in bocca il sapore del mondo” tratteggia l’esistenza di dieci grandi poeti del Novecento. Il suo rapporto con la poesia è lungo, direi quasi famigliare: parte da qui il suo lavoro? 

Sono stato educato alla poesia, in casa. Ho uno zio poeta, Giuseppe Elio Ligotti, che quand’ero ragazzo mi faceva leggere la grande poesia italiana e mi insegnava a contare l’endecasillabo sulle dita: l’accento deve cadere sempre sul mignolo, questa era la prima regola. Quando pubblicò il primo libro di versi, “L’elegia del dubbio”, con Rebellato Editore e la prefazione di Barberi Squarotti, io pensai che niente poteva fare più felice un uomo che pubblicare un libro di poesie. Lo seguivo, a Roma, alla fine degli anni Settanta, nei raduni poetici dell’epoca, e conobbi in quegli anni molti poeti importanti, come Maria Luisa Spaziani, Mario Luzi, un giovanissimo Valerio Magrelli. Avevo poi ricevuto in regalo “Vita d’un uomo” di Ungaretti, il primo volume dei Meridiani Mondadori, e ancora lo conservo religiosamente.

Racconta questi poeti in una dimensione imprecisata che trascende la realtà: oltre o dopo la morte. Che voce perduta ricercano questi fantasmi?

Ricercano forse una voce autentica, con la quale raccontare le sofferenze umane, gli amori, i dolori, la fatica di sbarcare il lunario, l’ossessione della letteratura, ma come se tutto questo fosse ancora palpitante, e la morte non lo avesse congelato in alcun modo. Non so se sono confessioni o resoconti, sono senz’altro delle messe a nudo, degli scatti fotografici, ma che vorrebbero mantenere il movimento della vita, dei sentimenti. E questo lo possono fare solo le parole, se non sono inamidate o artificiali. Mi viene da pensare che cercano anche la voce del lettore, e questa era la scommessa più grande: sovrapporre la loro voce alla mia e a quella di chi legge. Il ponte è quello più antico e più semplice: il racconto delle proprie avventure o disavventure, che sono comuni a tutti. Per usare le parole di Roberto Bolano, ho sempre ammirato le vite dei poeti, così smisurate, così rischiose.

I francobolli di Aldo Palazzeschi, il giardino di limoni di Quasimodo, il retrobottega di Saba. Ognuno di loro parla in cornici d’ambiente e di vita mai banali, scontate. Come ha trovato lo sguardo giusto per parlarne?

Per raccontarli dovevo scegliere per ognuno un luogo, un oggetto, un paesaggio. Qualcosa che li riassumesse, e li mettesse in scena. Il tavolino stretto dove scriveva D’Annunzio, la poltrona di Ungaretti, il davanzale dove Montale dà da mangiare agli uccellini, il tavolo di Cardarelli a via Veneto. Ogni fantasma ha la sua casa, il suo posto. È stata la prima cosa che ho scelto, ancora prima di iniziare a scrivere.

Fa dire a Gozzano: “Il mio problema è stato sempre la gravità, questo sentirmi sempre sbagliato, fuori stagione, fuori norma, fuori misura”. Sembra la condizione esistenziale di ogni poeta: essere fuori tempo massimo.

Fuori tempo, e nel posto sbagliato. È forse anche il motivo per cui si scrive, per alleviare un poco questo insopprimibile senso di inadeguatezza.

Se per Gozzano si scrive sempre troppo e ci si dimentica della vita, in questo libro racconta un poeta come Gabriele D’Annunzio che esce fuori da questo quadro interpretativo. Lo immagina nel suo ultimo carnevale dell’umano. Ha cercato di illuminare un lato nascosto dalle sue tante maschere?

Non è stato facile, non sapevo come prenderlo, da quale punto provare a raccontarlo. Poi ho scoperto che lui è morto un mercoledì delle ceneri, e questo ha dato il tono a tutto il racconto. La sua vita è stata davvero un lungo e interminabile carnevale. E di questo D’Annunzio, che non so quanto somigli a quello reale, ne ho fatto un malinconico capitano in esilio che ripercorre a ritroso la sua vita irregolare.

Il libro si apre e si chiude con due poeti che hanno vissuto e sofferto la vita: Dino Campana e Alda Merini. La poesia allora cos’è: come dice la sua Merini “È la dignità che non si ha. È la dignità che si soffre”?

Ho voluto aprire e chiudere con loro due perché questi dieci racconti sono un percorso circolare che va dalla follia alla follia. Il poeta cammina sempre sul bordo, è un fuori margine, è a un metro dal perdere tutto, anche la ragione. La poesia per loro è stata questa discesa all’inferno, ma anche lo scandalo, all’inferno, di voler restare umani, scrivendo. È questa la dignità che si soffre.

Queste parole nel frastuono odierno risuonano fragili, indifese, perfette come un tassello mancante in un mosaico di vite. Questa cura per le parole che cosa insegna?

In questi giorni così strani come quelli della quarantena nazionale, mi sembra che le parole abbiano ritrovato un senso comune. Malattia, speranza, morte, guarigione. La letteratura, in fondo, racconta sempre storie di sopravvivenza. Più che insegnare, ci ricorda che la vita è difficile, ma vale la pena sempre viverla, senza risparmiarsi. E rispettando il linguaggio, che è ciò che di più prezioso abbiamo perché ci rende umani.

La loro produzione, ma più in generale la poesia, risponde molto spesso all’esigenza di uno sguardo sulle cose incantato, premonitore, quasi rivelatore. Del mondo, che sapore hanno le opere di questi poeti?

Credo abbiano il sapore del desiderio. È il sapore che si prova a camminare sotto un cielo scuro, nero, ma senza avere perso la speranza, prima o poi, di riuscire a riveder le stelle.

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