Dee: i misteri del divino femminile. Un estratto dal libro di Joseph Campbell

by redazione

Dee: i misteri del divino femminile, in arrivo in Italia con Edizioni Tlon dal prossimo 2 dicembre, raccoglie gli scritti del celebre mitologo e studioso delle religioni Joseph Campbell intorno ai miti e agli archetipi del divino femminile, esplorando questo versante di quella che chiamava «la più grande storia del’umanità» e tracciando così le coordinate della comprensione che hanno di sé uomini e donne.

Dall’Europa neolitica alla mitologia sumera ed egizia, dai poemi omerici al ciclo arturiano, Campbell indaga i temi archetipici del divino femminile, la loro persistenza e la loro trasformazione nel tempo nonostante l’imporsi delle tradizioni monoteistiche. Delinea così il quadro complessivo dei rapporti tra le radici archetipiche del mito e le loro singole manifestazioni in diverse culture, intuendo come ogni elemento contribuisca a comporre una storia universale dell’immaginario.

ESTRATTO

Per cominciare mi concentrerò su quelle mitologie in cui le dee rivestono un ruolo primario. Nelle tradizioni dei coltivatori del Neolitico la manifestazione basilare della Dea era Madre Terra. La Terra porta alla luce la vita, e la Terra nutre la vita; e questi poteri sono simili a quelli della donna.

La mitologia primitiva però è fatta di due ordini principali. Uno è quello dei popoli di agricoltori e coltivatori, a cui è principalmente associata la Dea; l’altro è quello delle divinità maschili, legate di solito ai popoli di allevatori nomadi. Nelle prime società, le donne sono per lo più connesse con il mondo delle piante. Nelle remote tradizioni dei cacciatori e raccoglitori, sono quelle che generalmente raccolgono alimenti vegetali e selvaggina di piccola taglia, mentre gli uomini si dedicano alla caccia. Per questo gli uomini vengono associati all’uccisione e le donne alla creazione della vita. Si tratta di una tipica associazione a-b-c delle mitologie primitive.

Prima che si consolidassero i dispositivi di addomesticamento alimentare, prima delle coltivazioni, dell’orticultura e della domesticazione degli animali, tutte le popolazioni umane erano dedite alla ricerca di cibo e alla caccia. L’area della grande caccia si estendeva dalle pianure europee al lago Bajkal in Siberia. In seguito, questi popoli di cacciatori si diffusero fin sopra il circolo polare artico. Infine migrarono nel Nord Africa – poiché al tempo il Sahara era una pianura da pascolo – e quando si formò il deserto, scesero ancora più a sud.

Lungo la zona equatoriale, però, l’alimento principale sono i vegetali, e ciò comporta la presenza di due tipi totalmente differenti di persone e due tipi totalmente differenti di intonazione culturale.

Nella caccia gli uomini portano il cibo correndo grandi rischi. Prima del 1500 a.C. non avevano neanche l’arco e la freccia; erano costretti ad andare alla carica contro animali giganteschi – rinoceronti lanosi, mammut e così via. Nelle tribù di cacciatori, quindi, c’è un’enfasi mascolina sull’azione, sul coraggio, sull’esaltazione dell’individuo che possiede la capacità di portare il cibo a casa.

Lungo la zona equatoriale invece, be’, chiunque è in grado di prendere una banana, e quindi l’esaltazione della conquista individuale è smorzata. Inoltre, dal momento che per le sue funzioni biologiche la donna è orientata e associata, in senso mitologico, alla terra stessa (creare e nutrire la vita), nelle zone tropicali la sua magia è particolarmente potente.

In linea generale, quando l’accento è posto sulla caccia troviamo una mitologia incentrata sul maschile, quando invece è sulle piante la mitologia è incentrata sul femminile.

Ora, il primo tipo di società è ovviamente quella dei cacciatori. Gli esempi più antichi della loro mitologia incentrata sul maschile provengono dall’arte del periodo Aurignaziano, risalente all’incirca al 40.000 a.C. E il tema artistico più antico che conosciamo è quello delle statuette della Dea nuda, le cosiddette “Veneri paleolitiche”.

In queste società di cacciatori è il maschio a essere oggetto di adulazione, perché fa tutta la differenza del mondo se un tizio ci sa fare ed è in grado di ammazzare il nemico, che di solito è un animale spietato, ma può essere anche il membro di una tribù confinante che va a caccia della stessa mandria. Tutto viene quindi fatto per adulare la psiche maschile.

In queste culture il cacciatore maschio è sostenuto dalla femmina. Ciò è evidente in un rito piuttosto interessante che l’etnologo Leo Frobenius ha osservato in Africa.[1] Durante una spedizione in Congo, la sua compagnia era stata affiancata da tre Pigmei, due uomini e una donna. I Pigmei sono ottimi cacciatori, quindi nel momento in cui Frobenius ebbe bisogno di più carne per il suo gruppo chiese loro di procurargli una gazzella. I Pigmei furono scioccati al pensiero di dover portare la carne quel giorno stesso – dovevano prima compiere un rituale. Frobenius allora li seguì e li osservò.

Per prima cosa salirono su una collina e levarono di torno tutta l’erba che si trovava in cima; poi, una volta sgombrato il terreno, disegnarono l’immagine della gazzella che avrebbero ucciso. La mattina seguente, all’alba, quando i raggi del sole colpirono il disegno, uno dei piccoli guerrieri estrasse l’arco e scoccò la freccia – come a ripetere la traiettoria del sole – contro l’immagine, e la donna alzò la mano lanciando una specie di urlo. Poi andarono via e uccisero la gazzella, colpendola nello stesso identico punto in cui la freccia aveva colpito il disegno. Infine, il giorno seguente portarono un po’ di sangue e di peli dell’animale ucciso e li posarono sopra l’immagine, e quando il sole la colpì di nuovo la cancellarono.

Si tratta di un punto fondamentale nella mitologia: l’individuo non compie un’azione d’impulso, ma in accordo con l’ordine dell’universo. Il Sole rappresenta sempre il principio letale, essiccante, che inaridisce, e per questo l’assassino è sempre associato al potere solare. Qui la freccia arriva come un raggio di Sole, l’uomo non fa altro che mettere in atto un rito della natura e il ruolo della femmina è lanciare quel grido.

Ora, cosa significa tutto ciò?

Se andiamo indietro di poco più di trentamila anni, già nel Paleolitico troviamo testimonianza di una visione mitologica per la quale la donna è sia custode del focolare che madre della maturità dell’individuo, della sua vita spirituale.

Nell’arte muraria paleolitica del Nord Africa c’è una straordinaria immagine di una donna che assume proprio questa posizione (Figura 3): il suo cordone ombelicale è collegato all’ombelico di un guerriero o cacciatore che, con arco e freccia, sta per uccidere uno struzzo. In altre parole l’uomo è sostenuto dal potere di lei, dal potere di Madre Natura, che si aggiunge a quello del raggio di sole.

Le piccole statuette di Venere sono state rinvenute nei rifugi in cui si viveva durante il Paleolitico. Al contrario, i riti di iniziazione degli uomini si svolgevano nelle grotte profonde, in cui non abbiamo quasi traccia del femminile.[2] Nessuno viveva in queste caverne. Sono gelide, pericolose, oscure, imponenti, profonde. Alcune contengono chilometri e chilometri di corridoi bui. Su queste mura vediamo sciamani maschi in mezzo a una moltitudine di animali, immagini che hanno a che fare con i riti che propiziavano l’uccisione dell’animale. È il tema fondamentale dei popoli di cacciatori: gli animali sono vittime volontarie e offrono la propria esistenza; ma vige l’accordo secondo il quale verranno messi in pratica alcuni rituali – per esempio, riportare il sangue alla terra – per restituire la loro vita alla Sorgente Madre.[3] Il culto della Dea risale proprio a queste remote caverne. Lei è la caverna stessa e quindi affrontare i riti nelle profondità della terra significava per gli iniziati ritornare al suo grembo e rinascerne.

Ecco uno dei principali ruoli mitologici del principio femminile: ci mette al mondo come entità fisiche, ma è anche la madre della nostra seconda nascita – quella spirituale. Questo è il significato fondamentale della nascita verginale: i nostri corpi nascono in modo naturale, ma a un certo punto c’è un risveglio della nostra natura spirituale, che è la natura umana più elevata, quella che non si limita a duplicare il mondo dei desideri animali, degli impulsi erotici, di dominio e del sonno. Si risveglia in noi l’idea di un obiettivo spirituale, di una vita spirituale: una vita essenzialmente umana, mistica, da vivere al di sopra della dimensione del cibo, del sesso, dell’economia, della politica e della sociologia. In questa sfera della dimensione misteriosa, la donna rappresenta colei che risveglia, che dà vita. Nelle grotte in cui i ragazzi venivano iniziati, trasformati da figli della propria madre fisica a figli della Madre cosmica, lì nel ventre della terra, l’uomo sperimentava una rinascita simbolica.

Ciò è rappresentato in modo molto vivido all’interno di una grotta dei Pirenei conosciuta come la grotta di Trois-Frères, dove si trova un lungo canale attraverso il quale nel periodo della glaciazione di Würm scorreva l’acqua che ha aperto una sorta di conduttura nella roccia di circa quarantasei metri e che non arriva al metro d’altezza. Dopo averlo attraversato, non senza qualche difficoltà, si entra in una grande stanza. I ragazzi dovevano percorrerlo come in una rinascita simbolica – che non passava dalla propria madre individuale bensì attraverso la Madre transpersonale universale che conduce ognuno di noi alla maturità.

Tra le più antiche ed esplicite immagini della Dea ci sono le cosiddette “Veneri”, statuette femminili che risalgono al periodo Magdaleniano alla fine dell’Età della Pietra e che sono disseminate ovunque, dall’Ovest della Francia ai confini della Cina, passando per il lago Bajkal. In queste statuette, l’enfasi è posta sul mistero procreativo dei fianchi e sul mistero dei seni, l’aspetto riproduttivo e quello nutritivo. La natura le ha dato questo potere, e la donna diventa quindi la manifestazione e il significato del mistero della natura stessa. La donna è allora la prima entità venerata nel mondo umano. Queste furono le prime figure artificiali, tridimensionali, i primi idoli, come si direbbe in storia dell’arte, e rappresentavano la tipica musa femminile, il potere del corpo femminile che trasforma la vita. Queste statuette non compaiono nelle grotte dedicate ai riti di caccia degli uomini, ma nelle dimore, nei rifugi di roccia in cui si viveva. Una delle loro caratteristiche è che solitamente non presentano tratti propri del volto, e ciò ne sottolinea il mistero – non si tratta di un personaggio specifico, ma della pura donna come colei che porta la natura a manifestarsi.


[1] L. Frobenius, Atlantis, vol. 1, Volksmärchen der Kabylen, Eugen Diederich, Jena 1921, pp. 14-15.

[2] [Cfr. J. Campbell, Historical Atlas of World Mythology, vol. 1, pt. 1, pp. 51-79.]

[3] [Cfr. J. Campbell, “Renewal Myths and Rites”, The Mythic Dimension. Selected Essays 1959–1987.] 


You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.