“Esagera, la vita” il nuovo romanzo di Giulia Arnetoli

by redazione

Uscirà il prossimo 30 settembre, per Les Flâneurs Edizioni, il nuovo romanzo di Giulia Arnetoli (insegnante e già finalista della quarta edizione del Premio Letterario Salvatore Quasimodo): “Esagera, la vita”, che racconta una storia di resilienza, volontà e rinascita che mette al centro un’esperienza marcatamente femminile.

Tra le incomprensioni dei figli e le pressioni dell’ex-marito, Violante, alla soglia dei quarant’anni, si trova a dover lottare per portare avanti le proprie scelte. Il primo obiettivo della violenza è quello di minare la fiducia in se stessi, nel proprio giudizio, nella propria bontà: la protagonista di Arnetoli è colta proprio nel momento in cui è impegnata a districare i nodi delle aspettative e dell’abuso, dimostrando come sia sempre possibile risollevarsi a patto di restare fedeli a noi stessi.

bonculture anticipa un estratto del romanzo.

“Le pulsavano le tempie. Le massaggiò nel tentativo di alleviare il dolore ma era troppo profondo da raggiungere. Sette anni di terapia con il dottor Bonelli erano riusciti ad ammansirlo, non ad annientarlo: come le aveva spiegato, non sarebbe mai successo. Il dolore era la risposta del suo inconscio a ciò che aveva subìto. Succedeva un po’ come agli alberi quando sono sottoposti a un vento forte e continuo: si piegano sotto la sua forza e per resistere senza spezzarsi producono un “legno di reazione”, duro e massiccio. Quella reazione permette agli alberi di sopravvivere e così accadeva a lei, piegata da quel dolore che doveva imparare a controllare e a far sì che diventasse il suo appoggio e non il vuoto in cui perdersi. Ci aveva lavorato tanto, più che per se stessa forse per i suoi figli, e un po’ le pareva di averlo addomesticato, quel dolore inferocito. Ma nel momento in cui Luigi aveva sentito l’esigenza – egoista come sempre – di scaricarsi la coscienza, le sembrò di aver perso un po’ il controllo e sentì forte l’urgenza di chiamare il dottor Bonelli.

La camomilla non fumava più. La bevve tutta d’un fiato, poi prese il telefonino e scrisse un messaggio al terapeuta spiegandogli che era urgente, che lo doveva incontrare e che non poteva aspettare l’appuntamento successivo, fissato a fine mese.

Nel vano tentativo di dormire qualche ora, tornò a letto e si avvolse bene nella coperta perché le si era ghiacciato il sudore addosso e aveva freddo. Si rannicchiò vicino a Orlando. Nel sonno lui le strinse il braccio con entrambe le mani e il gesto del figlio fu come un balsamo per lei, che bramava il suo contatto. Il suo odore dolce, la sua pelle morbida, il respiro ancora svelto di bambino: tutto la addolciva. Quanto amore per i suoi figli. Nessun amore era stato più grande nella sua vita, nemmeno quello per suo marito, che pur aveva amato con rabbia e rancore. Quell’uomo che non aveva mai capito quanta ricchezza avesse tra le mani: gettava sempre tutto al vento, ma quelle cose preziose non sarebbero tornate e lei lo detestava per quello spreco. Ogni volta che arrivava al culmine del disdegno verso di lui, puntuale giungeva sempre un abbraccio e un «senza di te la mia vita non sarebbe nulla», e lei tornava ad amarlo, perché non aveva mai smesso di farlo, perché guardandolo vedeva la sua famiglia, quel prezioso vortice di volti, moccio, urla, risate, sacrifici, ritardi, sogni infranti, pannolini sporchi, calore. Avrebbe voluto proteggere tutto questo per sempre. Poi, un giorno, aveva scelto.

Se lo era chiesta tante volte se quello con Luigi era stato davvero amore. Poteva non esserlo stato, se una volta lasciati aveva avvertito il baccano che fa la solitudine quando non è desiderata? Con lui era un’altalena. Un su e giù di stati d’animo da voltastomaco. Tutto andava bene e un attimo dopo tutto era un disastro. Ogni volta si aspettava che Luigi la salvasse, ma lui era più inconsistente di lei, non era integrato nella vita, non trovava mai la via giusta ed era così frustrato da non potersi concentrare su chi gli stava accanto. Luigi era perso a disperarsi e lamentarsi, a detestare tutto e prendersela con chiunque, che poi chiunque erano sempre loro. La loro casa era il luogo dove sfogava il suo malcontento, mentre al di fuori donava la parte migliore di sé. Quella sul perché si portasse tutto a casa era una domanda che Violante gli aveva posto fino alla nausea, eppure di risposte non ne aveva avuta neanche una. Tuttavia, ogni cosa le era ormai chiara, lo aveva visto per quello che era: un uomo debole, bisognoso di apparire bravo agli occhi di tutti coloro che non lo avrebbero mai riconosciuto per ciò che era davvero. Perché lo sapeva di essere un egoista. Un vigliacco. Uno cattivo. Ma lei lo amava, i suoi figli lo amavano, in qualche modo avrebbero continuato a farlo. Questo pensava, questo lo rafforzava. Era convinto che l’affetto dei suoi cari fosse incondizionato e immune a ogni sua bassezza. Ma si era sbagliato.

Le cose peggiori avvengono così, di soppiatto. Violante viveva le sue giornate con l’amaro sospetto che se le fosse capitato qualcosa l’avrebbe dovuta affrontare da sola. Lui non ci sarebbe stato. E ne ebbe la conferma quella sera in cui lo aspettò invano. Non arrivò lui, né la comprensione, né il conforto, né nient’altro. Era così abile a sminuire o a far finta di nulla che, quando scendeva la notte, lei si convinceva che tutta la disperazione che la attanagliava non fosse altro che il frutto della sua sproporzionata e sconsiderata sensibilità, perché in fondo lei esagerava sempre. Così erano passati i giorni, i mesi e gli anni.

Si alzò alle sei, prima che suonasse la sveglia. Fuori imperversava un temporale, la pioggia batteva prepotente sui vetri e Violante si accorse di aver dimenticato di tirare giù gli avvolgibili. Se ne infischiò: provò un compiacimento dispettoso al pensiero che per quella dimenticanza Luigi l’avrebbe rimproverata. Era dolce constatare la libertà, il fatto che nessuno fosse più padrone della sua vita, delle sue abitudini, del suo tempo, neppure dei suoi pensieri. Alla televisione poteva guardare ciò che voleva e, finalmente, si sceglieva anche la musica. Se aveva voglia, cenava e, se non le andava, leggeva e leggeva, senza che arrivasse la voce di Luigi a gridare che non sapeva fare altro. Si stiracchiò, osservando suo figlio che dormiva rannicchiato come una piccola tartaruga nel suo guscio. Aveva il dito in bocca. Sì, lo faceva ancora, ogni tanto. Lei lo lasciava fare. Suo padre no. Lo sgridava e dava la colpa a lei che lo viziava e non lo faceva crescere. «Ne farai un disgraziato», le aveva rimproverato più volte. E lei non capiva, ancora si sorprendeva davanti alle sue scenate.

I primi anni di matrimonio, quando ancora non aveva visto la sua parte peggiore, quella che lo faceva assomigliare più a una bestia che a un uomo, soffriva per le sue cattiverie, per la sua insensibilità, per l’atrocità delle sue parole o, peggio, dei suoi silenzi. Secondo Luigi, la verità era che lei distorceva la realtà dei fatti: lui era semplicemente ciò che era.

Quei tempi erano finiti, ormai era sola con se stessa. Era stato difficile fare quel passo. Più volte si era chiesta cosa avrebbe fatto senza di lui. Quando arrivavano queste domande cariche di dubbi e timori colossali si doveva obbligare a ragionare, quasi violentandosi, ma, quando ci riusciva, la paura si dissolveva. Rimaneva lei”.

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