Haruki Murakami, un gattofilo alla ricerca del padre

by Fabrizio Simone

Haruki Murakami è tra i gattofili più famosi al mondo e nelle sue opere è possibile riscontrare una certa predilezione per i felini. I gatti, infatti, compaiono in racconti e romanzi dello scrittore giapponese, spesso trasfigurati (pensiamo ad un racconto presente all’interno del primo volume di 1Q84, Il paese dei gatti, a Kafka sulla spiaggia o ai Gatti antropofagi ne I salici ciechi e la donna addormentata), ma persino in alcuni saggi (Il segreto di un vecchio gatto, Sulla morte del mio gatto).

All’ossessione per i gatti è legata anche la scelta del nome del locale gestito insieme a sua moglie per sette anni, “Peter-cat”: Peter era un trovatello, un incrocio tra un persiano e un soriano, adottato al tempo dell’università –  il giovane Murakami studiava drammaturgia alla Facoltà di Lettere di Tokyo – a cui risalgono le prime esperienze lavorative dell’autore, impegnato part-time nei negozi di dischi e nei jazz bar edochiani per pagare l’affitto della sua seconda casa, economica ma molto spaziosa, distante dall’università di Waseda, spesso in subbuglio a causa delle proteste studentesche).

Un micio fa capolino anche nel nuovo lavoro di Murakami, Abbandonare un gatto, edito da Einaudi (76 pagine, 15 euro) e accompagnato dalle belle illustrazioni di Emiliano Ponzi (sue le copertine dei libri di Bukowski pubblicati da Feltrinelli, premiate nel 2013 con la Gold Medal dalla Society of Illustrators di New York). Come testimonia il titolo del suo ultimo libro (un saggio), il piccolo Murakami, già amante dei gatti, fu costretto da suo padre, verso la metà degli anni’ 50 (frequentava la prima o la seconda elementare – i ricordi sono offuscati), ad abbandonare una gatta randagia, colpevole d’essere incinta. La gatta scelse il giardino dei Murakami per partorire la sua prole pelosa, ma non aveva fatto i conti con Murakami Chiaki, padre dell’autore. I due, in sella ad una bicicletta, giunsero alla spiaggia di Kōroen e lasciarono la scatola contenente l’animale, tutt’altro che predisposto a vivere a contatto con l’acqua. La gatta percorse i due chilometri che separavano la casa dei Murakami dalla spiaggia e tornò ad attendere padre e figlio in giardino. I due, increduli, decisero di tenerla. Meritava un’altra possibilità. Come tutti del resto.

Ma il racconto dell’abbandono del gatto funge solo da espediente per poter riannodare i fili della memoria e parlare di un monaco buddhista impegnato in un tempio di Kyōto, abilissimo nella composizione di haiku e per lungo tempo insegnante di lingua giapponese alla scuola Kōyō Gakuin di Nishinomiya: suo padre, l’unico personaggio non scaturito dalla sua fantasia. Abbandonare un gatto è sostanzialmente la biografia di un genitore per nulla convinto della carriera letteraria del suo unico figlio, che rivedrà solamente in punto di morte all’ospedale Nishijin di Kyōto. Le ultime ore di vita impongono al novantenne, colpito da una grave forma di diabete e da un tumore ormai    diffuso in tutto il corpo, un dialogo impacciato col figlio sessantenne, eterno candidato al Nobel, alla ricerca di quella genitorialità messa da parte per troppo tempo e a cui solo in un punto di morte può essere tributato il giusto riconoscimento. Ed è proprio la morte il motore che spinge Murakami ad affacciarsi nel mare dei ricordi, allestendo per il genitore defunto una biografia totale con tutti i vizi e le virtù (pochi i vizi – l’abuso di alcol, ereditato da suo padre, Murakami Benkishi, priore del tempio Anyōji a Kyōto, scomparso accidentalmente a settant’anni,  il  25 agosto del 1958, poco prima delle nove del mattino, mentre attraversava i binari a un passaggio a livello incustodito, trasmettendo anche a suo nipote l’abitudine di alzare troppo il gomito, che gli varrà l’espulsione dal dormitorio Wakei-juku per via del furto dell’insegna dell’Università Femminile del Giappone, sulla quale si addormenterà).

Eppure quell’uomo che ogni mattina prega per i morti di tutte le guerre, davanti ad un piccolo altare dei morti presente in ogni casa che si rispetti (il butsudan), rappresenta un esempio a cui guardare, non soltanto per il piccolo Haruki. Pregare per gli amici è naturale, pregare per i nemici rivela la nostra reale predisposizione d’animo. Certo Murakami Chiaki avrebbe dovuto seguire solo la via della fede ma un errore burocratico lo spinse ad abbracciare un fucile Type 38 e a scoprire gli orrori della guerra. Come quando raccontò ad Haruki, che da poco aveva iniziato le elementari, l’esecuzione di un soldato cinese a colpi di katana. Come si risponde all’invito ad una decapitazione? Scrivendo haiku, è naturale. La poesia ha salvato Murakami Chiaki (il libro propone molti haiku scaturiti dalla sua fantasia), tornato in patria otto giorni prima dell’attacco a Pearl Harbor grazie ad un ufficiale sensibile, ma ad essa ha dedicato molte energie anche negli anni a seguire, consapevole della funzione catartica dell’arte, proprio come suo figlio, che nella poesia di Fitzgerald ha scorto la via per superare la tragedia dell’abbandono paterno.

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