Harvey di Emma Cline, un sopravvissuto di se stesso, ma non del #metoo

by redazione

Non un predatore feroce, ma un uomo annoiato imbolsito, che vede lo scrittore Don DeLillo nel vicino e si infastidisce per la vita quotidiana.

Harvey di Emma Cline sta scalando le classifiche di vendita.

Vi proponiamo due recensioni di due giovani suoi appassionati, ovviamente due lettori forti.

Harvey a pezzi. Emma Cline descrive le ultime ore prima del processo del #metoo

Come ci si accorge di essere cambiati?

Una mattina, che «era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere”, Pinocchio si sveglia e, nel tentativo di grattarsi il capo, scopre di avere cresciute su di sé due orecchie d’asino.

Sì, cari bambini, alle volte si cambia senza volerlo, senza neanche accorgersene: per di più spesso neppure tastare due lunghe orecchie irsute serve a molto davanti alla forza cieca della convinzione.

Harvey, l’ultimo libro di Emma Cline (Einaudi, 2020, pp 104, €12), è la storia di un uomo che non si capacita d’essere diventato non ciuco, ma porchetta.

Harvey è l’Harvey Weinstein del #metoo – il produttore che nel 2017 è stato accusato di molestie da decine di donne, la cui ricerca di giustizia ha ispirato tante altre a unirsi e a reclamare equità al grido di #metoo, anch’io ho subito e non intendo subire più – e la porchetta è la porchetta che lo scorso febbraio Asia Argento, che era stata tra le prime a denunciare il produttore, ha postato nelle sue storie di Instagram appena sentita la notizia della condanna a ventitré anni per Harvey Weinstein.

Ora, mettendo da parte considerazioni di ogni tipo sul garantismo, sulle buone maniere, sull’uso dei social – mettendo da parte Asia Argento – le foto che quel giorno già si vedevano online di quell’uomo grasso, sciancato, malvestito e brutto più che mai non erano molto lontane dal correlativo suino.

Cline, proprio come Collodi, non indugia troppo sugli anni di cuccagna (leggasi, ovviamente, prevaricazioni, abusi di potere, violenze), non è quello l’importante, piuttosto si domanda quand’è che non si può più negare. Semplicemente, a essere cocciuti abbastanza, non ce ne si accorge mai.

Harvey infatti viene seguito nella sua ultima giornata da innocente, quando ancora, ospite di un amico, può fingere di avere di che occuparsi: un nuovo film, dei vecchi acciacchi, la famigliaccia di sempre. Tutto per lui è cambiato, eppure nulla gli sembra cambiato.

Harvey non è neppure uno sconfitto, piuttosto è uno che è stato beccato con la brachetta calata, uno che elemosina conferme sulla propria innocenza da nomignoli del web, uno che è, insomma, una colossale lagna.

Difatti, se c’è un motivo per non leggere Harvey è proprio in ciò: diversamente da Collodi, ma anche da quei salaci vittoriani à la Thackeray, Emma Cline ha scritto un libro privo di qualsiasi ironia, coll’aggravante di aver utilizzato una narrazione sì mimetica, ma totalmente in terza persona: davvero un autore che nutra un qualche affetto per i suoi lettori può pensare di propinare loro un libello come questo, in cui, in centoquattro pagine, c’è una sola scintilla, un unico momento in cui si lascia libero il lettore dal fardello dell’empatia? (Non si dirà qui qual è questo momento, ma il lettore se ne accorgerà: c’è financo un punto esclamativo, !)

Cline fa bene a dire, intervistata dal New Yorker, di non scrivere storie «per ribadire norme politiche o sociali o per mettere su alcun tipo di esibizione morale (moral performance, ndt)», ma è evidente che, nel tentativo di fuggire un certo moralismo (pure molto in linea con lo spirito del tempo), l’autrice finisca dritta in una sorta di moralismo letterario ovvero la beghineria di coloro che pensano che perché si conservi la gratuità propria dell’arte basti, semplicemente, far sì che questa non abbia alcun valore: una roba che non condannerà nessuno alla gogna, ma che finisce sicuramente per annoiarci a morte.

Vito Alberto Lippolis

L’Harvey Weinstein di Emma Cline: il mostro “comune” della contemporaneità

Ai tempi de “Le ragazze”, edito da Einaudi nel 2016, qualcuno disse di Emma Cline che “peccava di troppa perfezione”. Era ai tempi della sua opera prima, caso letterario di quell’anno, che Emma Cline mescolò sapientemente fiction e realtà ispirandosi alla tragica vicenda che vide protagonista Charlie Manson e la sua Family nella strage di Bel Air dell’8 agosto 1969 raccontato dagli occhi di una adepta della setta ormai sessantenne.
Più di cinquanta anni fa, una storia che raccontava la solitudine nella bulimia reazionaria a tinte forti di quegli anni e la voglia di essere “accettati” e “amati” violentemente. Quando si avvertiva l’odore del sangue , la rapacità delle prede, e l’epidermico bisogno di appartenere a qualcosa.
Emma Cline ritorna dopo non poco tempo, ben quattro anni dalla sua opera prima, firma qualcosa di unico, il suo secondo libro, “Harvey”. In meno di cento pagine racconta sempre con la stessa cura per la “necessità narrativa” che ha la finzione nel mescolarsi con la realtà, l’ultimo fatidico giorno si semi libertà che segnerà una svolta o per meglio dire, una forte rottura nella vita di uno dei personaggi più popolari d’America. Uno degli uomini più “affrontati” e paparazzati di sempre, produttore cinematografico, incantatore di serpenti, nato nel quartiere di Flushing di New York da una famiglia ebrea e da un padre tagliatore di diamanti nell’America degli anni ’50. Fondatore con suo fratello della Miramax Films, candidato a innumerevoli premi oscar e vincitore della produzione di “Shakespeare in Love”, produttore di cult come Pulp Fiction e Sesso bugie e videotape di Steven Soderbergh. L’11 marzo 2020 dopo una battaglia legale durata due anni e mezzo viene condannato definitivamente dalla Corte Suprema con l’accusa di stupro e violenza sessuale a 23 anni di carcere da scontare nell’istituto penitenziario di Rikers Island.
Stiamo, ovviamente, parlando di Harvey Weinstein
, eppure già da quel titolo Emma Cline sembra preannunciarlo, senza il suo cognome come racconto di una maschera, che affonda le radici anche e soprattutto nell’umanità senza mai essere troppo indulgente, di un mostro come tanti.
Lo seguiamo, fin dalle cinque del mattino del giorno prima del processo. Svegliarsi nel suo letto, descritto come una persona qualunque, come un personaggio comune senza pregiudicarlo e rilegarlo nella “spettacolarità” della sua mostruosità riflessa nei media e nella contemporaneità. Quella mostruosità diventata patina, il materiale offerto su un piatto d’argento all’America bene e “sensibile”, quella sua cialtroneria maschilista e camaleontica sessualità violenta che hanno fatto si che nascesse un movimento femminista chiamato “Me too” e dato via libera a tutto lo star system in una spregiudicata guerra contro il sessismo.
Emma Cline dicevamo, lo fa “svegliare presto” da uomo normale, con un braccialetto al piede stretto sulle calze rosse che sono proprio quelle rosse del papa comprate ad un negozio vicino il Vaticano. Il braccialetto prima della forca, quella specie di strumento che ti da l’impressione di essere “con un piede nella fossa”, di quelli impermeabili che non si bagnano durante la cura del proprio corpo in vasche da bagno bollenti e alcoliche di un uomo descritto come un “rospo”. Harvey prosegue la sua giornata, centellinata da un senso di noia, pesantezza del suo stesso corpo (come se esso stesso fosse in primis la sua più grande minaccia e avvertenza, una materia cangiante aliena di sottomissione e regresso) e di illusione. Illusione perché Harvey crede con i suoi “sensi” e la sua “sveltezza di conquiste e di fortuna” che non va mai oltre il proprio naso di potersela dare a gambe, di poterla scampare, di poter rifuggire a qualsiasi tipo di penitenza, continuando a dire “grazie”, nella villa del suo amico che lo custodisce come un “sopravvissuto di se stesso” ormai al capolinea. Si mostra gentile Harvey, predisposto ad argomentare la sua finzione di peccatore “come tutti”, quasi volesse essere risarcito della violenza inflittali, perché in fin dei conti, “quelle donne lo hanno voluto!” “non si sono mai opposte!” “ne è passato di tempo prima che parlassero!”. Frasi di un mondo che compassato lo perquisiva sulle riviste e sventolava la sua quotidianità tiepida e sostenuta tra un quotidiano e un altro smaltendo qualche pasto caldo. L’Harvey, quello di Emma Cline, non è solo la replica dei lettori e spettatori di tutto il mondo, si da colpe ma fino ad un certo punto, si applica ad un intervento all’avanguardia per i dischi della sua colonna vertebrale ormai in frantumi, mangia porcherie, “crea” carinerie lessicali, il suo “potere” illegittimo di dialogo con il femmineo, “sfotte” e “simpatizza” l’infermiera che si occupa delle sue flebo nella grande villa lontana da tutto. Emma Cline sembra prendere di peso il contenuto “parabolico e discendente” di un singolo vivente semplice, un uomo comune che dal principio alla fine, che dalla mattina alla sera passa la sua giornata e le sue ore come ogni giorno su questa terra, e sviluppare quel “singolo” come una maschera, con tutte le caratteristiche per cui lui è stato accusato. Quella maschera studiata, vivisezionata, Emma Cline sembra shakerarla con la “tragedia di un uomo ridicolo”, un uomo che possiamo incontrare per strada, un uomo che chiede l’elemosina, o un conoscente con cui beviamo un caffè dimenticandolo pochi istanti dopo o ancor meglio un uomo che ci è tanto caro. “Harvey” edito da Einaudi, separato in piccoli intermezzi in sole novanta pagine di grande intensità, sembra situarsi nelle maschere “sorrentiniane”, fare riferimento non ad una vera e propria biografia ma ad una certa apologia per il semplice e il mostruoso collateralmente in continua collisione. “Come sono effimere le cose del mondo”, sembra dirci, “Gloria mundi sic transit”, riducendo il suo personaggio al manifesto della semplicità e stucchevole virilità dei rapaci che diventano prede. Harvey incontrerà sua figlia nel corso della giornata, sua nipote, farà una cena regale come nel miglior cinema di Visconti, “La caduta degli dei” verrebbe da ricordare, mentre abbandona la sua illusione per una opprimente e folle disillusione di un futuro che non gli spetta più e che ha altri riflettori, quello della cronaca nera. Ha come vicino di casa un uomo che sembra essere Don DeLillo, confonde “Rumore bianco”, uno dei libri cardine dello scrittore americano, per citazioni del miglior Thomas Pynchon. Crede in un ulteriore progetto con lui, infine, scappando dai cancelli della sua tenuta presa “in prestito” dopo essere stato cacciato da sua moglie mentre gli allarmi suonano, e spera ancora in quel cinema che l’ha creato e quel cinema “che ha creato”, quel valore umano ultimo che lo riallaccia ad un cuore ormai nero, quel valore umano che comunque continua ad azzerarlo in un animale da estinguere. Ormai, neanche più la finzione del cinema può assolverlo.

Gianmarco Di Biase

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