“I Casamonica sono dentro la pancia della città”. Nello Trocchia racconta il clan mafioso autoctono più potente del Lazio

by Michela Conoscitore

Impossibile incastonare in poche definizioni e parole l’impegno di chi ha dedicato la sua vita interamente al giornalismo d’inchiesta, quello scomodo che intimorisce i più. Per lui è il pane di cui si ciba: è autore di numerose inchieste sulle organizzazioni criminali operanti in Italia, i suoi libri narrano di realtà che troppo spesso molti vorrebbero rimanessero nell’ombra e non venissero decodificati, come sperimentò sulla propria pelle Giancarlo Siani. E proprio il giornalista napoletano ha spinto Nello Trocchia a diventare quello che è oggi.

Recentemente ospite di Legalitria, il festival della legalità, dove ha presentato il suo ultimo libro, pubblicato per la casa editrice UTET, una nuova inchiesta dove ha analizzato dinamiche e peculiarità della famiglia che ‘governa’ Roma, i Casamonica. bonculture lo ha intervistato.

Casamonica è la sua nuova inchiesta, messa nero su bianco, che racconta minutamente il clan mafioso della Capitale dopo decenni di sottovalutazione e omertà. Come accadde con Cose di Cosa Nostra di Giovanni Falcone, pensa che finalmente col suo libro si comprenderà appieno quello che può essere definito il fenomeno Casamonica?

Intanto non scomodiamo Giovanni Falcone, evitiamo qualsiasi tipo di parallelismo perché non reggerebbe. L’obiettivo del mio libro è quello di raccontare, a quanti avranno voglia di leggerlo, il clan autoctono più potente del Lazio. Un clan che, per anni, è stato sottovalutato da Roma, e che continua a sottovalutarlo. Nominare il fenomeno mafioso significa doverlo affrontare, sostanzialmente bisognerebbe quindi rompere ogni vincolo e rapporto con certi poteri. Inoltre con il libro volevo uscire dalla superficialità di lettura del clan che, spesso, è descritto unicamente come violento, una banda di bulli di periferia senza arte né parte. Invece ho provato a delineare le caratteristiche criminali che elevano questo ‘fenomeno’ ad un clan di mafia.

Una famiglia che conta, con le sue diverse ramificazioni, novecento membri altro non è che un’organizzazione tentacolare che avvolge tutta Roma. Secondo lei la parte sana della città riuscirà a tirarsi fuori da questa rete?

Il punto è questo: possiamo dirci che ce la faremo ma il tema vero è che l’onestà deve essere conveniente, al di là del fatto che ognuno di noi può essere motivato da un afflato, un’ispirazione, una legge morale che ci guida. L’onestà diventa conveniente se viene abbattuta una villa o se la stessa è messa sotto sequestro o confiscata per altro uso. Se qualcuno compie un delitto, quella colpa la paga senza sconti e corsie preferenziali. Se qualcuno commette un errore lo paga senza logiche di impunità e copertura. Il comportamento probo, onesto è premiato e viene riconosciuto come normale, cioè come un qualcosa che appartiene alla consuetudine. Solo allora cambierà qualcosa. Se, invece, la normalità è l’anormalità, ovvero escamotage e scorciatoie, allora posso risponderle che la parte sana della città non riuscirà a salvarsi.

Nel suo libro riporta la testimonianza dell’interprete dal sinti che segue i vari eventi giudiziari che vedono coinvolti i membri dei Casamonica. Riferisce che il lato mafioso di questa famiglia è quasi un effetto collaterale della loro brama di soldi, e non li contraddistingue come caratteristica predominante. Loro, dal di dentro, come si percepiscono?

Loro si reputano ‘zingaracci’, non vogliono essere definiti mafiosi. Non sono sciocchi, perché sanno benissimo che auto-definirsi mafiosi consegnerebbe un’arma alla magistratura per contestare il 416 bis (articolo del codice penale che definisce i reati per associazione mafiosa, ndr.), e quindi aprire ad una normativa molto stringente in termine di sequestri di beni e misure cautelative personali. Come fanno parte della città, della magistratura, della stampa e opinione pubblica, sono definiti come una famiglia un po’ sopra le righe, molto violenta ma nulla più. Loro stessi adorano sguazzare nel pregiudizio, di essere vittime di razzismo perché sono zingari e questo, ovviamente, li esclude dalla società. I Casamonica sono, di contro, inseriti benissimo all’interno di essa e dimostrano il loro potere attraverso polsi agghindati con Rolex, macchine di lusso, la vita in centro e belle donne. Loro sono dentro la pancia della città, anche se poi Roma, ufficialmente, li relega in periferia. Molti professionisti e servitori dello Stato sono attenti alle sorti dei Casamonica perché esercitano un potere che è sia intimidatorio che corruttivo.

A proposito di ciò, qual è la differenza tra comportamenti mafiosi ed essere mafiosi?

Non è facile distinguerlo. L’essenza del mafioso è una categoria astratta: a mio avviso, per essere mafioso, da un punto di vista giudiziario devi rispondere a delle infrazioni previste dal codice, da un punto di vista pratico la mafiosità si evince dal controllo del territorio e, in particolar modo, dalla capacità di istituire e predisporre in quel territorio un vincolo di omertà. Nel momento in cui si instaurano impunità e omertà, si può attestare una presenza mafiosa. È chiaro che non esiste un armamentario, un compendio sui comportamenti mafiosi o non mafiosi. Dare una testata in bocca è un comportamento mafioso? Un funerale con petali di rose può essere considerato mafioso? Secondo molti osservatori no. Secondo me sì, perché questi esempi non distinguono se uno è mafioso oppure no, ma se uno appartiene ai Casamonica o meno. Essendo loro un impasto di crimine e identità sinti, è ovvio che quell’incrocio li trasforma in un unicum criminale. Le massime e i paradigmi applicati a questo tipo di clan, riconosciuti e noti, sono un errore madornale di lettura.

Ciò che colpisce e che emerge dalla lettura del suo libro è l’assenza dello Stato, grazie alla quale i Casamonica hanno prosperato, e in una città come Roma fulcro della vita governativa è spiazzante, e gli stretti legami che legano il clan a camorra e ‘ndrangheta. Come diceva Leonardo Sciascia: “La mafia non si sviluppa nel vuoto dello Stato, ma dentro lo Stato”. A distanza di anni da questa affermazione, secondo lei riusciremo mai ad arginare il fenomeno mafioso in Italia o è una questione di ‘mentalità’?

No, non è una questione di mentalità. Il fenomeno mafioso ormai è ovunque, oggi è diventato internazionale. Le organizzazioni criminali sono presenti dove ci sono soldi e potere. Da un punto di vista normativo noi possiamo punire e sanzionare i soggetti. Per quanto riguarda la lettura dei fatti, spesso vi è carenza e superficialità nell’approccio non solo per quanto riguarda i Casamonica, ma anche per altri gruppi criminali. Non c’è approfondimento e conoscenza di questi fenomeni malavitosi anche da parte della magistratura giudicante. Il problema è quando arriva un potere con un’ingente quantità di soldi da riciclare attraverso azioni illecite, e riesce a garantire l’offerta di servizio. Non so se riusciremo a sconfiggere questo fenomeno, so che è battibile però essendo radicato e avendo interlocuzioni strutturali con pezzi dello Stato, è chiaro che quest’ultimo non decide di combatterlo nella sua complessità e interezza. Di conseguenza, non vincerà mai. Lo Stato siamo noi, con le nostre attività quotidiane: il poliziotto, il magistrato, il giornalista, l’ingegnere comunale, il sindaco, quelli che con le proprie attività mettono un grimaldello nell’ingranaggio criminale. Se ciascuno di noi non fa la propria parte, la battaglia non si vince. Se chi se ne occupa per lavoro, come inquirenti, magistratura e giornalisti, adotta un approccio superficiale questi gruppi criminali aumenteranno il proprio potere ed egemonia. Se su un territorio ci sono due poteri, o si combatteranno o troveranno un accordo.

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