Il “Breviario per un confuso presente” di Corrado Augias

by redazione

La pandemia da corona virus ha solamente complicato un presente disordinato, in fiamme. A ricordarcelo, in un saggio agile e intrigante che si offre come bussola intellettuale per orientarsi fra i cambiamenti e le rivoluzioni pervasive della nostra modernità, è Corrado Augias, giornalista e scrittore che, per Einaudi, ha scritto “Breviario per un confuso presente”.

Analizzando i temi della modernità (la politica, l’etica, il sapere, la Nazione) e i grandi dilemmi dell’esistenza (Dio, la fraternità, l’infinito, l’eros), Augias ricollega presente e passato in una rilettura appassionata di grandi autori, filosofi e intellettuali come Spinoza e Montaigne. L’autore, in una conversazione online, presenterà il libro questo pomeriggio, a partire dalle ore 18.30, nella rassegna di appuntamenti culturali delle Librerie Ubik. L’incontro, moderato da Renata Barberis con alcuni librai, andrà in onda sulla pagina Facebook Ubik Librerie e sarà in collegamento con quattro punti Ubik in Italia: Foggia, Savona, Sesto Fiorentino e Trento.

bonculture, in accordo con Einaudi Editore, pubblica un breve estratto di “Breviario per un confuso presente” dedicato all’istruzione e all’importanza del sapere per le nostre democrazie.

“Da anni, ogni nuovo ministro dell’Istruzione appena insediato ha provato a fare la sua riforma – senza grandi risultati. Non è tutta colpa dei ministri, anche la confusione dei tempi ha influito sulla mediocrità dei risultati. Concepire un sistema d’istruzione richiede una visione netta degli scopi da raggiungere. La riforma scolastica del filosofo neoidealista Giovanni Gentile (1923) fu una vera riforma perchè le sue norme si fondavano su un a priori filosofico, che l’educatore sia un’azione spirituale che lega due spiriti, l’educatore e l’educando. Era una scuola severa, con una forte impronta «aristocratica» nel senso che i corsi più formativi da un punto di vista culturale erano riservati a pochi. Nelle condizioni sociali dell’Italia d’allora, questo voleva dire che solo i più agiati potevano ambire ragionevolmente ad arrivare al liceo classico, considerato la gemma dell’intero sistema dal quale si accedeva a ogni facoltà universitaria mentre già ai diplomati del liceo scientifico restavano interdette le facoltà prettamente umanistiche come Lettere, Filosofia, Giurisprudenza. Gli idealisti la pensavano così, Benedetto Croce nel suo La storia come pensiero e come azione scrive: «La realtà è storia e solo storicamente la si conosce, le scienze la misurano bensí e la classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono, né loro ufficio è di conoscerla nell’intrinseco».

Su questi discutibili presupposti filosofici venne costruita la riforma gentiliana anch’essa criticata ma che in sostanza ha retto fino al 1962 quando Dc e Pci riuscirono a concordare una riforma che istituiva la scuola media unica dalla quale accedere a tutti i corsi superiori, abolendo le scuole di avviamento professionale considerate discriminanti.

Le riforme, buone o cattive, da sole però non bastano. In una visione di concreta efficienza la scuola avrebbe bisogno di edifici migliori, insegnanti più preparati e meglio pagati, minori interferenze esterne a cominciare da quelle delle famiglie che sono spesso un elemento di disturbo. Utopie. Non ci sono soldi, non c’è nemmeno una vera volontà politica, manca – forse non è possibile avere – una visione generale dell’istruzione senza la quale ogni riforma diventa un rattoppo, spesso inutile.

D’altra parte, è anche inutile rimpiangere una scuola che non può più esistere. La scuola per tutti, di massa, ha voluto dire una scuola più facile. L’accesso a tutte le facoltà quale che sia il diploma di provenienza, crea limitati oggettivi all’insegnamento. A Lettere, non si deve più affrontare il famigerato esame biennale di latino di notevole difficoltà. Assurdo però che ci si laurei in Lettere senza aver studiato filologia romanza e un po’ di latino. La scuola democratica ha i suoi costi.

Tra la scuola di Gentile e quella nata dal famoso Sessantotto ci sono poche somiglianze, con perdite e guadagni. Le perdite sono crudelmente messe in evidenza dai test Invalsi e OCSE-PISA. Ma alle deficienze della scuola s’è poi aggiunto quanto imposto dal costume; la difficoltà a capire un testo appena articolato, come ad esempio l’editoriale di un quotidiano, è accresciuta dal linguaggio giovanile in genere ristretto e rudimentale. Il linguista Luca Serianni ha scritto un breve saggio, L’italiano. Parlare, scrivere, digitare, denso di osservazioni illuminanti. Già nel titolo si distingue tra scrivere e digitare, due azioni simili solo in apparenza: in realtà richiedono un impegno diverso come spiega il saggio introduttivo di Giuseppe Antonelli: «La rivoluzione in atto investe l’idea stessa del testo: la sua destrutturazione per andare incontro a intelligenze abituate sempre di più a guardare che a leggere».

Negli anni Sessanta del Novecento don Lorenzo Milani aveva dettato nella sua scuola rurale di Barbiana: «L’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000: per questo è lui il padrone». Aveva anche detto: «Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». Esiste un rapporto diretto, una sinergia negativa, fra povertà del linguaggio e possibilità più limitate. Chi parla male pensa male, chi non sa dare nome ai propri impulsi ed emozioni è destinato a essere catturato dal primo demagogo che passa.

La democrazia vive di parole, cioè di discussione, scambio, mediazione. Un senatore che si alza ed esordisce con un «Se ci troveressimo» oppure un «Se potremmo» non ferisce solo la grammatica, assesta un piccolo colpo alla democrazia. Se manca la capacità di esprimere adeguatamente un concetto, manca anche quel controllo della realtà, e di se stessi, assicurato agli esseri umani da un linguaggio articolato e corretto – la nostra prima e più preziosa conquista”.

© 2020 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.

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