Il Corsaro Nero ed Emilio Salgari di Roccabruna, eroe da tastiera ante litteram

by Enrico Ciccarelli

Nella letteratura per l’infanzia i libri di Emilio Salgàri (che nella mia mente di bambino si fissò con pronuncia sdrucciola, e tale rimane) sono ormai fuori moda, ma i fiumi carsici dell’editoria ne ripropongono ciclcicamente alcuni titoli, su tutti quelli del ciclo di Sandokan e quello dei pirati dei Caraìbi, che ben prima di Johnny Depp vennero celebrati in tre romanzi (al netto dei seguiti postumi) dello scrittore torinese. Poco cosa, paragonata alla produzione fluviale di Salgàri, autore di oltre cento romanzi e duecento racconti. Ma impareggiabile opportunità per quanti, ormai oltre la cinquantina, hanno esercitato la loro fantasia di bimbi sulla Tigre della Malesia e Tremal-Naik, il Corsaro Nero e le sue assortite discendenze, il Leone di Damasco e Capitan Tempesta (ma anche il generale Custer e la rivolta dei Boxer).

Proprio il Corsaro Nero, uno dei più celebri eroi salgariani, si presenta in un romanzo dalla storia intricata e insulsa come si conviene ai feilleuton. Il pallido Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia e Valpenta, esercita da corsaro non per avidità ma per fosca faida. Il perfido Wan Guld ha infatti tradito lui e i suoi fratelli durante la guerra in Fiandra e si è rifugiato nei Caraibi sotto la protezione della corona spagnola. Ed egli, sempre aristocratico, rispettoso dei codici d’onore e pallidissimo (solo la Rai poteva farlo interpretare al fascinoso e bronzeo Kabir Bedi) lo insegue dall’uno all’altro emisfero per trarne vendetta.

Nella migliore tradizione della letteratura di genere dell’Ottocento (il romanzo fu pubblicato nel 1898), lo snodo drammatico è costruito sul conflitto fra onore e cuore, tra amore e dovere. Accade infatti che l’elegante spadaccino dal cuor di leone si innamori della splendida Honorata, da lui casualmente rapita nel corso di un abbordaggio. L’ama e ne è riamato, ma ella è purtroppo figlia dell’odiato Wan Guld, della cui famiglia il Corsaro Nero ha giurato di fare sterminio. È un po’ come se Pillon si trovasse a essere fidanzato con Vladimir Luxuria.

Emilio di Roccabruna è quindi stretto fra il desiderio di impiparsene ed impalmare la bella e il peso del giuramento che gli imporrebbe di ucciderla. Molto italianamente, decide di non fare né l’una né l’altra cosa. La sbarca dalla Folgore (questo sì che è il nome di una nave pirata, altro che Perla Nera) su una scialuppa con acqua e viveri. Lascia così che se la sbrighi il destino.

Il plot è -come si vede- un pastrocchio di non grande originalità, finale aperto compreso. È reso però con la scrittura dei sogni e dei fumetti. Personaggi bidimensionali ed efficacissimi, continui colpi di scena, ambienti oscuri e fantasmagorici, empori di meraviglie esotiche. Avvincente, Salgari, malgrado la polvere che si è ormai depositata sul lessico. Libero dagli impacci della psicologia, orgogliosamente lontano da qualsiasi ambizione alla verisimiglianza.

Lo sprezzo per la realtà storica e circostanziale era in Salgari una sorta di religione. La applicò non solo alla narrativa, ma alla sua vita. Girava per la sua Torino in uniforme da capitano di lungo corso, ma in realtà i suoi trascorsi marittimi furono ristretti ad una breve crociera in Adriatico. Intratteneva spesso gli interlocutori con aneddoti più o meno truculenti su personali avventure mai vissute (forse faceva parte del novero aver partecipato come casuale concorrente del pubblico a un match di boxe nel circo di Buffalo Bill). O meglio, mai vissute nel ristretto recinto dell’esperienza fisica. Tuttavia indubitabilmente lo erano state nella vastissima prateria del suo immaginario.

Non è affatto casuale che i fratelli della Filibusta, i tigrotti di Mompracem, il fido maharatto Kammamuri e il tabagista Yanez de Gomera tornino ciclicamente in auge nel nostro Paese. Il loro creatore fu infatti un eroe da tastiera ante litteram. Non solo di prima che esistessero internet e i social network, ma quando la stessa tastiera era ancora assai poco diffusa. C’erano anche in Italia, al tempo, i primi congegni per scrivere, ma lo scrittore non poteva permetterseli. Anzi, per risparmiare, fabbricava da sé l’inchiostro con il succo di certe bacche.

Sarebbe sbagliato credere che Salgari inventasse di sana pianta. A Verona trascorreva molto tempo in biblioteca a leggere i racconti di viaggio e d’avventura, e così a Genova e Torino. Diciamo che non era un granché quanto a critica delle fonti. Nei suoi testi si rinvenivano personaggi e vicende storiche (da James Brooke alla battaglia di Little Big Horn). Ma con loro erano presenti fanfaluche inattendibili, ucronie e credenze senza base. Per dirne una, nei romanzi del ciclo del West, tutti capiscono tutti. I Sioux non hanno problemi di dialogo con gli Cheyenne, né ne incontrano Yankee e Pellerossa. L’unico che parla strano è un britannico.

Vi ricorda qualcosa? Le scie chimiche e le sirene, i vaccini pieni di metalli e radiazioni, il grande complotto di Big Pharma? Le prave trame del gruppo Bilderberg, i cui membri sono occulti ed inquietanti come i Thugs delle Sunderbunds? Esatto, avete centrato il punto. L’Italia e parte della sua opinione pubblica sono preda di un’infrenabile trazione salgariana, che sostituisce l’adrenalina alla cognizione di causa e l’emozionalità al raziocinio.

Non è una tragedia, specialmente se l’ubriacatura viene presa a piccole dosi. Ma qualche controindicazione c’è. Perché il fastidioso reale non si lascia accantonare così facilmente dal fantastico sogno. Il povero Salgàri era costretto a scrivere continuamente per sbarcare il lunario e pagare i suoi numerosi debiti. Appena uscito dalle fragorose locande della Tortuga dopo una bevuta con Carmaux e Van Stiller, incontrava vicende più tristi. Fra esse la malattia mentale di sua moglie, attrice di qualche successo che gli aveva dato quattro figli.

La povera Ida Peruzzi (per il marito fu sempre Aida, come l’eroina verdiana) era soggetta a frequenti ed incontenibili scatti d’ira. Si ispessirono e si aggravarono a tal punto che il 18 aprile del 1911 dovette essere internata in manicomio (vi resterà per oltre dieci anni). Esattamente una settimana dopo, era un martedì, Emilio Salgari si allontanò dalla Torino in cui fervevano i preparativi dell’Esposizione Universale. Giunto ai prati di Val San Martino, con un affilato rasoio, si aprì il ventre in un rudimentale harakiri e si recise la carotide. Lo trovarono accartocciato su se stesso e con la fronte rivolta al sole. Nell’ultima lettera ai suoi editori scrisse «vi saluto spezzando la penna». Emilio Salgari di Roccabruna, corsaro nero in incognito, era arrivato al suo risveglio. Solo un attimo prima di piombare nel buio.

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