“Il giudice e Mussolini”, 100 anni dopo la storia di Mauro Del Giudice nel libro di Raffaele Vescera

by redazione

“La verità è nelle pieghe della storia. Ed è lì che Vescera l’ha trovata.”

Pino Aprile

A 100 anni dalla nascita del fascismo,  la verità sul delitto Matteotti arriva in un romanzo di Raffaele Vescera, dal titolo “Il giudice e Mussolini”, edito da Enrico Damiani Editore, disponibile nelle librerie dal 28 marzo e in tour con delle prime presentazioni in Puglia dal 4 aprile.

Una narrazione documentata sull’evento che sancì in Italia la nascita della dittatura.

mauro del giudice

“Quell’uomo aveva fatto tremare i palazzi del potere…Contro di lui s’erano mossi capi di Stato e di governo, re e dittatori, ministri e spioni, feroci energumeni e donnine assoldate, nemici palesi e amici fraudolenti, ma minacce di morte e appetibili lusinghe non erano bastate a frenare la sua corsa verso la verità.”

Allo scoccare della seconda guerra mondiale, il vecchio Mauro Del Giudice vive a Vieste. La sua è una routine da pensionato: qualche passeggiata, i libri, pochi amici, la figlia adottiva Franca e sua madre Vincenza, il mare chiaro del Gargano.

E, sottotraccia, l’attività sovversiva contro il fascismo. Ma non è sempre stato così, e il passato continua a tormentarlo. Tornando indietro al delitto Matteotti, da cui prende avvio il Ventennio, lo ritroviamo presidente scomodo della Sezione della Corte d’Appello di Roma a cui fanno capo le indagini. Il processo non è di quelli facili, esecutori e mandanti nascondono la verità sotto le camicie nere ancora nuove. Tra false piste, minacce e lusinghe, collusioni e intimidazioni, Del Giudice, uomo riservato e magistrato integerrimo, oltre che umanista e appassionato meridionalista, si trova a dover sbrogliare una matassa sempre più intricata.

E scopre che le ragioni della soppressione dell’onorevole socialista, oltre che nella sua denuncia al nascente regime, sono da cercare in quella dimensione oscura dove, oggi come sempre, i giochi segreti della politica si intrecciano a quelli dell’economia, e il potere, trasversale a ogni ideologia, a ogni confine, a ogni tempo, si fa semplicemente tradimento e impunita violenza.

Raffaele Vescera è giornalista e scrittore. Appassionato studioso del Meridione d’Italia, ha pubblicato, oltre a numerosi racconti, diversi romanzi storici, tra cui ricordiamo Inganni (1992), Cacciabriganti (1994), La mala vita di Nicola Morra (2003) e Il barone contro (2014).

Pubblichiamo alcuni estratti del libro, offertici dall’autore.

AVVERTENZA

Ho rubato parole e fatti agli scritti di Mauro Del Giudice, giudice istruttore del delitto Matteotti, più di tutto alla sua Cronistoria del processo Matteotti e alle inedite memorie giovanili, riportandone espressioni e pensieri, e ho percorso la suggestiva via del petrolio indicata da Giovanni Fasanella e Mauro Canali, citando alcuni articoli di giornali inglesi del tempo. Il resto è romanzo. Di più, poiché un’opera è sempre frutto di intelligenza collettiva, questa deve molto ai racconti di mio padre Salvatore, vicino di casa del giudice a Vieste, allo sguardo critico di Pino Aprile e Michele Trecca, a Maria Teresa Rauzino, biografa del giudice e sua concittadina, alla pronipote Maria Rosaria Del Giudice, ai ricordi di Nata Gioffreda, figlia di Antonio e nipote di Francesco Paolo, amici di Del Giudice, da lei conosciuto da bambina, e a quelli di Gianni e Pasquale Medina, rispettivamente nipote di Berardino e figlio di Vincenzo. Ancora, l’opera è debitrice delle rievocazioni storiche di Peppino Maratea, nipote di Francesco, testimone del processo, di Francesco Mastrorocco, Michele Eugenio Di Carlo e dei novantenni Ludovico Ragno e Matteo Siena, memorie storiche di Vieste.

CAPITOLO 3

Gli arresti degli alti esponenti del partito fascista rimbalzavano sulla stampa internazionale che parlava di una possibile caduta del governo Mussolini, la sala era zeppa di giornalisti venuti da ogni dove. Italiani, filogovernativi e di opposizione, corrispondenti stranieri in Italia che conoscevano l’italiano e inviati speciali seguiti da interpreti. Quando l’anziano magistrato si trovò al cospetto di quella confusione di facce di ogni fattura e di quella babele di lingue, ebbe un mezzo mancamento, le urla gli rimbombavano in testa come tuoni, temeva che l’emozione l’avrebbe fatto incespicare sulle parole. Disse a Tancredi di comunicare ad alta voce che il presidente avrebbe parlato solo se si fosse fatto silenzio in sala. Ottenuta l’insperata quiete acustica, Del Giudice parlò. Riferì con poche parole che gli arresti dei due alti gerarchi, componenti il quadrunvirato fascista, Cesare Rossi e Giovanni Marinelli, erano obbligati per via delle confessioni e delle prove schiaccianti raccolte a loro carico. Concluse avvisando che sulla questione non poteva aggiungere altro, per via del segreto istruttorio. Una sfilza di domande urlate lo sommerse all’istante, “Presidente, nell’affaire è implicato anche il capo del governo?”, “Presidente, come mai non è scattato l’arresto di Mussolini? Non è pensabile che i suoi due vice abbiano agito contro la sua volontà”, “Presidente, porterete sul banco degli imputati l’intero partito fascista?”. Così lo mettevano in croce, senza che lui potesse rispondere rivelando la verità, un po’ lasciava capire, un po’ si trincerava dietro il segreto istruttorio. Poi iniziarono a tormentarlo i giornalisti stranieri, a partire da quello del giornale inglese, “Daily Herald”, sul quale poco prima aveva letto delle tangenti versate dalla Sinclair al fratello del duce e al re Vittorio Emanuele III. Del Giudice se la cavò rispondendo: «Non abbiamo riscontri giudiziari di quanto sostiene il vostro giornale, se ne avessimo procederemmo di conseguenza». Più di tutto, lo mise in difficoltà una giornalista inglese, di considerevole altezza e capelli rossi, che in buon italiano gli domandò se fosse a conoscenza di un memoriale autografo dell’onorevole Matteotti, scritto prima della sua scomparsa, arrivato al mensile inglese “English Life”, che lei rappresentava, in cui il deputato socialista dichiarava di essere a conoscenza di rapporti di corruzione tra la compagnia petrolifera e alcuni ambienti del governo fascista. Il memoriale di Matteotti sarebbe stato presto pubblicato dal giornale. La notizia destò clamore in sala, tutti chiedevano alla collega inglese di saperne di più, ma lei non volle anticipare nulla, disse loro che avrebbero letto quando sarebbe stato pubblicato. «È giornata di petrolio, oggi. Pare una congiura», borbottò tra i denti Del Giudice, pensando che, se per davvero fosse esistito quel memoriale, le cose si sarebbero complicate di molto. Alla domanda della giornalista inglese rispose di non saperne nulla, non c’era alcuna risultanza. Poi, parlando all’orecchio del cancelliere, lo pregò di contattare la signora per dirle che voleva avere un colloquio con lei a fine conferenza. La giornalista, usciti i colleghi, lo attese seduta al suo posto. Del Giudice la raggiunse: «Le dispiace signora se ci allontaniamo da questa sala? Se vuole, possiamo parlare nel mio ufficio con maggiore tranquillità». Lei alzandosi lo seguì con aria sicura. Accomodati in ufficio, a quattr’occhi, Del Giudice le chiese: «Come ha detto che si chiama signora? Mi perdoni, nella confusione della sala mi è sfuggito il suo nome». E la donna, sui quaranta ben portati, tirando fuori un biglietto da visita: «Rose Bloom, corrispondente per l’Italia di “English Life”, non speravo di poterle parlare personalmente». «L’onore è mio, signora Bloom». «Signorina, per la cronaca».

[…]

Roma ne aveva viste di tutti i colori in tre millenni. Città del muso duro e della molle vita, della repubblica e del senato, di patrizi e plebei, del delenda Carthago e della pax romana, degli schiavi al lavoro nei campi, nelle officine e nelle miniere per ingrassare i patrizi e della morte nelle arene per divertire il popolo primitivo e gli imperatori scellerati. Città di crocifissi e baccanali, caput mundi delle ricchezze sconfinate, rapinate ad altre terre sue colonie, e di turbe di affamati. Capitale di generali osannati, saggi senatori e filosofi scacciati, del ricco e potente impero distrutto da poveri cristiani predicatori d’uguaglianza e barbari predatori di altrui fortune. Infine, capitale spirituale del mondo tenuta in vita da un papa re, a volte santo, altre simoniaco, città del perdono e della pace universale, dopo millecinquecento anni riproponeva le sue storiche venture in forma di caricatura. La retorica fascista, degna conclusione e colmo di quella sabauda, ricopriva Roma con una cappa cupa. Ancora musi duri, ancora parate trionfali, ancora urla belluine di “me ne frego”, “il duce ha sempre ragione”, “la modestia è la virtù dei fessi”, “credere, obbedire, combattere”, “a chi l’Abissinia?”, “A noi”, “boia chi molla”, “chi non è con noi è contro di noi”, “chi si ferma è perduto”, “col duce fino alla morte”, “due popoli una guerra”, “i soldati italiani sono i migliori del mondo”, “libro e moschetto fascista perfetto”, “in armi per la difesa della razza”, e altre amenità da osteria.

FUORI SCENA

Passa il fascismo e passa la guerra, il ceto politico uscito dalla Resistenza sembra migliore, tra questi c’è Enrico Mattei che diventa presidente dell’Eni. Otto anni dopo la morte di Mauro Del Giudice, avvenuta a Roma nel giorno di San Valentino del 1951, Mattei sorvola il Gargano con un elicottero, se ne innamora e decide di fare dell’incantevole baia di Pugnochiuso, circondata da un parco naturale, prossima a Vieste, un centro vacanze per i dipendenti dell’Eni. La sua politica nei confronti dei paesi arabi produttori di petrolio è più equa di quella americana. Egli non punta a un rapporto coloniale di sfruttamento e concede royalty più alte. Il 27 ottobre del 1962, l’aereo leggero decollato da Catania e diretto in Nordafrica, su cui viaggiava il presidente dell’Eni cade. Mattei muore. È opinione comune che si sia trattato di un attentato. A succedergli come presidente dell’Eni è Eugenio Cefis, implicato in grossi scandali e ritenuto uno dei fondatori della loggia massonica P2, nuova padrona del Belpaese. Il 16 settembre del 1970, il giornalista Mauro De Mauro, fratello maggiore dell’italianista Tullio, viene rapito e ucciso da un commando mafioso a Palermo. Stava indagando sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia. Aveva ricevuto l’incarico di scrivere la sceneggiatura di un film sulla morte di Mattei dal regista Franco Rosi. In passato aveva lavorato con i servizi segreti militari, sapeva come muoversi. Scrive la sceneggiatura e la sigilla in una busta gialla. In quella busta è contenuta la verità, Mattei non fu ucciso a causa di un incidente, ma da una piccola carica esplosiva piazzata sull’aereo che lo trasportava. De Mauro scomparve 268 269 sotto casa. La figlia Franca vide il padre rientrare nella sua auto con tre sconosciuti, “Amuninni”, andiamo, gli ordinò uno di loro, e De Mauro sparì nel nulla, come Matteotti. Nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini viene ucciso da un balordo. Stava scrivendo il romanzo “Petrolio” in cui narrava le vicende di Mattei, Cefis e De Mauro. Nessuno crederà mai che il gracile ragazzo di borgata Pino Pelosi possa aver aggredito, sopraffatto e assassinato, da solo e senz’armi, l’atletico Pasolini. Il giudice Carlo Alfredo Moro, fratello del politico Aldo Moro, concluse che Pelosi aveva ucciso lo scrittore insieme ad altre persone ignote. Dal manoscritto del romanzo di Pasolini, risulta scomparso il capitolo più compromettente. In seguito, il “bibliofilo” Marcello Dell’Utri, condannato per concorso in associazione mafiosa, rivendica il possesso di quel capitolo. Ed è proprio il politico pugliese Aldo Moro, presidente del consiglio, a essere rapito e ucciso dalle brigate rosse tre anni dopo. I capi palestinesi, con i quali Moro era in buoni rapporti, diranno che a volerlo morto furono gli americani, la famiglia di Moro fece il nome di un segretario di Stato Usa. Ancora una volta, pare che ci fosse di mezzo la politica petrolifera italiana verso i paesi arabi, concorrenziale a quella americana. Parlando di queste storie con un amico antiquario, appassionato di puzzle, misteri, complotti e strane coincidenze, egli mi fa notare che i nomi o i cognomi degli attori coinvolti in questa tragedia, Mussolini, Matteotti, Mauro Del Giudice, Mattei, Mauro De Mauro, i fratelli Moro, iniziano con la lettera M. «Come Massoneria, Mafia e Morte», conclude. «E Merda», chioso, poi scettico aggiungo: «Vabbè, ma Pasolini che c’entra? Inizia con la P». E lui, sornione: «Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi, vittima e assassino entrambi con la lettera P, come Petrolio e la loggia massonica P2». Gli rispondo allegramente che la mia fortuna è di non avere un nome che inizi con M o P, e dunque posso stare tranquillo. Ma l’amico con tono allarmato: «Perché ti vuoi occupare di queste faccende? Pugliesi erano Mauro del Giudice, Mauro De Mauro e i fratelli Moro. Ancora la P di Puglia e di petrolio. Quando si dice il caso». Lo guardo incredulo e lui prosegue «Sei foggiano come Mauro De Mauro e garganico come Mauro Del Giudice, conosciuto da tuo padre, a Vieste, paese d’origine della tua famiglia». «M’aggia preoccupa’?», gli domando ancora scettico. E lui: «Le vie del petrolio sono infinite».

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