Il perturbante abita ogni stanza del romanzo di Elisabetta Pierini “La casa capovolta”. Un estratto, in anteprima

by redazione

Pubblichiamo, in anteprima, un estratto dal libro di Elisabetta Pierini, “La casa capovolta”, in uscita il 6 maggio per Hacca Edizioni. Come Shirley Jackson in Abbiamo sempre vissuto nel castello, con il suo romanzo d’esordio Elisabetta Pierini procede sul sottile filo che lega realtà e fantasia. Il suo è un romanzo in cui il perturbante abita ogni stanza, ogni rapporto: uno sconcertamento che a volte ci appare così domestico da pensarlo anche nostro. È nello sguardo limpido e sognatore di una bambina come tante, eppure unica nel suo modo di affrontare la quotidianità, che scopriamo i tormenti di una famiglia disfunzionale.

Fuori era tutto zuppo di pioggia. L’aria era gelida e il cielo sembrava gonfio d’acqua. La luce se ne stava andando e, incastrata tra una nuvola e l’altra, si vedeva la luna tonda come una fetta di mela, dello stesso colore insipido. Era troppo tardi per andare da Laura. Guido Felici si seccava a trovarsela tra i piedi anche la sera, quando voleva mettersi in pigiama e sedere in poltrona a guardare la TV. Glielo aveva detto Laura. Immaginò Guido Felici che faceva la doccia dopo aver cenato e lavato i denti. In quella casa si facevano le cose con ordine.

Eva scese in giardino a guardare in direzione della casa di Laura chiedendosi cosa facesse l’amica: avrebbe voluto sedersi sul suo letto, ascoltare o raccontare storie che facevano ridere. Non era difficile: bastava iniziare e le stupidaggini venivano da sole una dietro l’altra, come gocce di pioggia. Certe volte la madre di Laura si sedeva con loro sul letto e rideva anche lei. Vide la luce alle finestre del piano di sopra e la sagoma di Guido Felici dietro le tende. Vide che in camera dell’amica la luce era accesa, ma non si muoveva niente e immaginò che lei se ne stesse sul letto a guardare il soffitto sperando che cascasse giù. A Laura interessavano solo le cose vive. Ma in casa sua non c’erano animali e nemmeno insetti. Invece, a casa di Eva c’erano ragni di tutti i tipi, mosche, calabroni e anche scorpioni neri. Si nascondevano nelle spaccature del muro e certe volte non si nascondevano nemmeno, nessuno dava loro la caccia. Nel giardino si aggiravano gatti randagi, topi, e sugli alberi ogni tanto ci aveva visto lo scoiattolo. Gli uccelli cantavano a squarciagola sui rami come se volessero tenere tutti svegli. Ma di là del cancello se ne stavano buoni anche loro, c’erano regole a cui obbedire, lo sapevano tutti.

Laura era una bambina grande rispetto a Eva, eppure il mondo infantile dell’amica continuava ad attirarla con le sue avventure e storpiature: le galline pensavano, i muri si contorcevano, gli alberi afferravano la gente con i loro lunghi rami pieni di mobili dita, le bambole parlavano e le ombre prendevano corpo. Un universo incerto, pieno di mistero, forse di calore, un calore che in certi giorni scaldava e in altri si faceva artificiale e rarefatto come se qualcosa non funzionasse alla perfezione. Un universo fluttuante in cui ogni cosa poteva essere vista sotto una certa luce solo per un attimo, una luce incerta e tremolante come quella di una candela.

Spesso, le due amiche andavano nella zona dietro le villette; c’erano case in costruzione, un camper, edifici vecchi e fatiscenti con la porta scardinata. C’erano buche nel terreno e qualche animale. Era un posto interessante dove difficilmente si incontrava qualcuno. Una volta ci avevano visto una serpe. Un’altra volta una gallina nera. Avevano inseguito la gallina per tutto un pomeriggio: lei era una spia e loro degli agenti segreti. Eva era tornata diverse volte nel campo a cercarla. Le portava pezzetti di prosciutto. Quando c’era prosciutto a pranzo o a cena se ne riempiva le tasche. Alla gallina piaceva più dei vermi o dei semi che beccava per terra. Ormai, la gallina la riconosceva. Lei camminava e quella a zampettarle dietro, chiocciando. Le girava intorno come un gatto affamato. Quando l’abbracciava, Eva sentiva il cuore della gallina che batteva sotto le penne: poteva pensare con la sua testa che era grande come un chicco d’uva e aveva un cuore vero di carne grande come un fagiolo. La prima volta che l’aveva stretta quella aveva fatto un verso, una specie di grido strozzato, e aveva mosso la testa in qua e in là come se fosse disperata. Ma poi si era messa buona, il collo dritto e gli occhi neri che la guardavano intelligenti. Aveva gli occhi piccoli e tondi come quelli della maestra. Alla fine si era abituata a lei. Ora Eva immaginava che se pioveva per tanti giorni di fila, la gallina nera avrebbe sentito la sua mancanza.

«Dove credi di andare?», chiese suo padre. «È quasi notte».

«Da nessuna parte, guardavo e basta». Lo sapeva che era notte. Aveva visto la luna, sapeva che da Laura avevano messo il pigiama e nella via c’era quel silenzio leggero come cipria, che aveva quasi un colore e un odore a guardarlo e lo si sentiva sulle dita.

Eva si ritirò dentro casa e il signor Bentivogli chiuse la porta a chiave, a doppia mandata.

«Non devi andare troppo spesso da loro, aspetta che ti invitino. Penseranno che una casa non ce l’hai!», disse severamente. In genere non faceva caso se Eva usciva e dove andava e con chi. Si fidava di lei. La vedeva come una persona responsabile e matura. Ora però era una bambina, una figlia, improvvisamente. Forse aveva notato il suo sguardo pieno di desiderio verso la casa di Laura e si era dispiaciuto che anche lei volesse scappare.

Tu esci a tutte le ore, pensò Eva. Tu te ne vai, anche io voglio andarmene. Dentro di sé però sapeva che non era giusto che sua madre restasse sola.

La mano dal tocco leggero di Loris la scosse per farsi notare e lui le strizzò l’occhio invitandola a lasciar perdere. Lo so, gli disse telepaticamente, cosa credi? Loris la invitò ad andare di sopra. Aveva il suo violino con sé e aveva la faccia buffa che faceva apposta per farla ridere.

Eva salì saltellando la scala e entrò in camera. Si affacciò alla finestra sperando di vedere l’ombra di Laura dietro le tende della casa. Quando si stancò di cercare la sagoma dell’amica dietro i vetri, stampata sulla tenda, si accorse che c’era del rumore in corridoio.

Chiuse la porta della camera e finse di dormire, anche se non era ora di andare a letto.

«Eva? Rispondi!», si affacciò sua madre. Aveva una voce mite e buona come non accadeva mai. Le venne voglia di aprire gli occhi, ma le palpebre se ne stavano incollate per paura che quella voce sparisse. Non rispose. Sua madre entrò e le accarezzò i capelli. Ascoltò i suoi passi mentre si allontanava nel corridoio e le sembrò che le mancasse l’aria all’improvviso e che qualcosa la soffocasse. Loris le batté una pacca sulla spalla e le chiese se voleva ascoltarlo suonare. Eva si mise seduta; pensava alla sua gallina nera. La gallina veramente non era sua ma dell’uomo del camper. «Credi che se la mangerà?», le aveva chiesto Laura un giorno. Lei non ci aveva mai pensato e le era venuta la paura che lui potesse farlo.

«Finché fa le uova non se la mangerà, non gli conviene e Pina fa tante uova».

«E tu come lo sai? Te l’ha detto lei che fa tante uova?»

«Sì. Me le ha fatte vedere».

Ogni volta che abbracciava la gallina si raccomandava che facesse molte uova.

Intanto Loris aveva smesso di suonare e le fece segno di seguirlo nel loro nascondiglio. Era un posto che non conosceva nessuno, per le emergenze. Aspettò che la notte assorbisse ogni suono, aspettò ancora e le sembrò di sentire il rumore là fuori cambiare di colore: non più suoni umani, solo versi di animali come se la città fosse sparita, mangiata dalla notte una casa alla volta. Si alzò dal letto e scese le scale. Le sembrò di sentire scricchiolare il silenzio dei suoi passi. Entrò nella stanza vuota. Lì c’era un’altra porta, una porticina bassa bassa, che dava su una scala che a sua volta scendeva in cantina. La cantina era buia, ma non così buia perché una specie di finestrella dava sul giardino. Perciò riusciva a vedere fuori il cielo. Era una stanza angusta, anzi proprio stanza non era. Aveva il soffitto basso e il pavimento polveroso. Una vecchia rete appoggiata sul pavimento lo occupava praticamente tutto. Su quella Eva aveva appoggiato delle vecchie coperte, una borraccia e una bambolina. E poi c’erano dei libri da sfogliare, dei libri di favole, ma non c’era luce se non quella della pila che si era portata dietro. In quella stanza non aveva paura. Sapeva che non poteva succederle niente. Non sapeva perché lo sapesse, ma sapeva di saperlo.

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