Il potere è invano: la fenomenologia targata Filippo Ceccarelli

by Felice Sblendorio

Di Filippo Ceccarelli ci si potrebbe limitare a dire che appartiene a pieno titolo alla categoria dei venerati maestri indicata da Arbasino (senza passare per le due precedenti: “giovane promessa” e “solito stronzo”) del giornalismo politico italiano. Con la sua verve irresistibile ha descritto e raccontato il potere nei suoi aspetti più gustosi: il sesso, il cibo, l’abbigliamento, le dimore, le vacanze, le amanti, le pazzie. Due Repubbliche, e l’esordio di quest’ultima, raccontate con uno stile particolarissimo come nessuno mai ha fatto così bene: prima a Panorama, poi a La Stampa e infine a Repubblica.

Per onorare una lunga carriera, fatta di mille ricordi catalogati nel suo archivio che, dal 2015, è uno dei fondi della biblioteca della Camera dei Deputati, Ceccarelli ha scritto un libro monumentale e indispensabile per comprendere realmente l’antropologia più autentica del potere italiano. Il titolo suggerisce il percorso e il tono: “Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua” (Feltrinelli, 976 pagine, 25.00 euro). bonculture, proprio per analizzare questo potere, ha intervistato Filippo Ceccarelli.

Nell’epoca della memoria collettiva dei pesci rossi, un libro di quasi mille pagine sul potere. È stata l’urgenza di ricostruire una memoria che protegga il futuro da traumi e drammi già vissuti che l’ha spinta a scrivere “Invano”?

È stata una reazione, anche provocatoria, a tutto un andazzo di dimenticanza, ignoranza, superficialità, brevità, ignoranza, istantaneità, trallallà. Non solo nessuno ricorda più niente, ma mi pare anche normale di fregarsene: se ne fa a meno, basta e avanza il presente, quello che c’è. È un dato di fatto, ma è pure un guaio perché, morti i testimoni, per prima cosa si scordano gli errori, si fa tabula rasa dei traumi, che in tal modo finiranno per ripetersi. Bombardati come siamo di dati, non riusciamo più ad andare molto indietro nel tempo. Mentre io, per natura e indole, vivo praticamente immerso nel passato, dove non c’è solo il presente, ma anche qualche riflesso di futuro. Quindi che potevo fare se non scrivere un mattone e, aggiungo, una bibliografia sterminata e un indice dei nomi pazzesco? Dopo tutto, è una provocazione gentile e, almeno in teoria, un faticosissimo tentativo di fare i conti con quello che ormai diverse generazioni hanno vissuto, ma non si ricordano più.  

Con il suo sguardo illumina la fenomenologia, oserei dire l’antropologia della politica del Belpaese. Com’è cambiato il modo di raccontare il “colore” quando le idee sono scomparse e l’estetica è diventata l’essenza più pura della politica?

In un tempo divenuto assai figurativo, se non pieno di visioni che a volte assomigliano a delle allucinazioni, volevo evitare a tutti i costi gli aspetti per così dire astratti, ideologici, e i passaggi più propriamente politici. Mi interessava rendere invece l’umanità della politica, quindi le abitudini, gli stili di vita, il modo di apparire, i vestiti, le case, il cibo, gli oggetti, i collaboratori, le amichette. Non so se si tratta di “colore”, genere che nel giornalismo ha – aveva – un’accezione di minor rilievo rispetto alle “cose vere”, che sarebbero state le ideologie, i progetti, gli schieramenti, le alleanze. Io credo che le “cose vere”, oggi, siano diventate, dopo il tramonto delle culture politiche, proprio queste su cui mi sono concentrato.

Il titolo rivela tutto sul ciclo breve del potere che, irrimediabilmente, finisce, ritorna invano. Lei collega questa argomentazione con il tema della morte: sfidare il potere per ingannare la fine, per ridurre la propria scadenza, giusto?

La risonanza del titolo è biblica. L’uomo, con tutto il potere, è comunque nulla. E infatti le cose, anche le più grandi e gloriose, finiscono (di solito male: meglio saperlo). Io, che sono di Roma, esco di casa e mi trovo di fronte le rovine del palazzo imperiale, e da lassù si governava fino al Mar Caspio. L’idea che il potere sia un modo di ingannare la morte l’ho presa da Elias Canetti, in “Massa e Potere”. Ma quando ce l’hai dentro, e l’hai non dico verificata, ma vissuta facendo per quarant’anni il giornalista politico, oltre a non liberartene più, ti fa leggere e vedere le cose che accadono giorno per giorno in un altro modo, che per me è insieme tragico e buffo.

Tutto questo nel suo racconto si materializza con la fine delle grandi famiglie politiche italiane: DC e PCI. È stato Craxi il primo volitivo leader che ha rotto questa concezione fanatica, spirituale e tribale della politica?

Posto che tra le grandi famiglie io metterei anche quella fascista e neo fascista, se al primo Craxi, dopo il Midas avessero chiesto: Bettino, che c’è “dopo”? Che succede una volta arrivata la morte? Io credo che avrebbe fulminato con lo sguardo il suo interlocutore e avrebbe risposto: “Boh!”. E poi, come in effetti disse appena eletto a Giampaolo Pansa sulla terrazza del Raphael: “Primum vivere”. Era questa sua incertezza rispetto al “dopo”, un fatto anche di libertà e di affrancamento dalle proiezioni “religiose” delle culture politiche del secolo scorso; ma era anche qualcosa che comportava il rischio che la morte fosse irreparabile. Perché dopo poteva esserci il nulla. È questo a mio giudizio il punto cruciale e anche storico, la frattura che Craxi introduce nel sistema rifiutandosi di considerare uno sviluppo ultramondano: il Paradiso, la Patria, il Comunismo. Sennonché senza fede in un aldilà ideologico, senza cultura e senza etica, si rischia di vivere in un modo libero, ma anche famelico, qui e ora, senza preoccuparsi più degli altri, e a volte così ci si frega con le proprie mani, proprio com’è successo a Craxi.

Prima di Craxi, però, quella Prima Repubblica “che non si scorda mai” è finita, idealmente, con il sangue di Aldo Moro. Cosa ha mutato definitivamente nella storia politica italiana quella morte?

Con la fine di Moro, la Dc perde l’anima; secondo altri muore proprio la politica, una certa politica. Di sicuro si mettono le basi per la fine della Prima Repubblica. Ma c’è un’altra morte parallela, terribilmente pubblica e all’altezza del dramma geopolitico italiano: quella, appena sei anni dopo Moro, di Enrico Berlinguer, un altro uomo politico schivo e riservato, sul palco del comizio di Padova. Vale la pena di riguardarne le immagini: il capo comunista, quello che incarnava la Razionalità della Storia, ha un ictus in atto, ma vuole assolutamente finire il suo discorso. Su quel palco, dopo che Berlinguer viene portato via praticamente a braccia, anche il Pci perde l’anima, nel senso che pochissimi continuano a credere nell’avvento del Comunismo e si creano le condizioni per ammainare la bandiera rossa.

L’anima persa del Pci e la mutazione della sinistra, insomma: è in questo cambio di anime, che in una generazione passa dalle riunioni operaie alla pashmina dei leader Ds, che si è sbiadita l’identità della sinistra?

Quella è stata – e rimane ancora oggi – una vera e propria catastrofe. La fine di un mondo, la dissipazione di un patrimonio, la corsa all’indietro rispetto a un modo di concepire la propria esistenza, un tragitto forse inevitabile, ma senza riscatto né ricominciamento. Gli ex comunisti, alla fine, sono diventati uguali a quelli che da giovani volevano combattere.

Un suo libro sul “colore” del potere non poteva non omaggiare Berlusconi, uno dei personaggi politici più spiccatamente melodrammatici della nostra storia. Chi è stato per l’Italia il Cavaliere?

Anche Berlusconi reca alla vita pubblica italiana qualcosa di più del colore, se non altro perché proprio a lui si deve l’ingresso in politica di veri e propri esperti cromatici, e più in generale, la rivoluzione estetizzante della politica. Insieme con il Cavaliere, l’esteriorità, la forma, l’espressività e l’apparenza hanno rafforzato il loro dominio a scapito della sostanza, della realtà, dei contenuti e della neutralità istituzionale. Allo stesso modo la sua italianità lo attraversa, come in nessun altro leader, nel senso dei due generi della commedia e del melodramma, ciò che ha portato alla fine del contegno nei governanti e al tracollo della parola politica. Per l’Italia, in estrema sintesi, direi che Berlusconi è stato lo Zio, uno Zio di successo, buono e scavezzacollo, egoista e generoso come un bambino, però pieno di esperienza come un vecchiaccio. Si comportava da re senza esserlo. Ci ha fatto divertire, ma anche perdere un sacco di anni. Come tanti temo di doverlo rimpiangere. 

È stato lui, in tempi non sospetti, a praticare i benefici della post-verità?

Sul piano della post-verità, o verità penultima, o bugia, dobbiamo molto, e anche prima di Berlusconi, a Umberto Bossi. Basti pensare alla svolta celtica, all’invenzione della Padania, al rito dell’ampolla con l’acqua santa presa sul Monviso e sversata nella laguna, nel mezzo la catena umana sul Grande Fiume e il Senatùr che lo solcava sul catamarano “Virgilio”, un milione, un due milioni, bùm, un circo pazzesco.

Ma vuole paragonare Bossi con le peripezie di memorie di Berlusconi: dai lavori alle donne, passando per le zie suore?

Alle “fregnacce” Berlusconi ha dato un tocco meno eroicomico. Bossi era sempre lì pronto a invocare l’insurrezione, i golpe, i kalashnikov, la dinamite; Silvione, dopo una prima fase più famigliare (i mestieri, le zie monache, che secondo me erano meno di quante ne millantasse) ha inaugurato la logica sistemica delle verità penultime, alle quali non era così necessario credere, e talvolta sembrava che lui stesso non ci credesse. Erano veritiere d’altra parte le visioni massive dei soldi, del lusso, le villone, dell’auto-trasformazione contro lo scorrere del tempo, la chirurgia plastica, i trapianti di capelli, le canzoni con Apicella, poi il bunga-bunga, le donne, ma tante, troppe, per giunta le aveva messe a vivere tutte insieme, alla fine s’è capito che non pensava ad altro, faceva le ore piccole e il giorno dopo si addormentava dappertutto, a volte con la bocca aperta. È chiaro che eravamo già oltre la post-verità, ma in cambio sembrava di vivere in un sogno.

Dopo questo sogni sono arrivati loro, “questi qua”: il Bomba (Renzi), il Capitano (Salvini) e Giggino (Di Maio). È l’apoteosi della politica performativa che ha perso quella solida e personale “certa idea di mondo”?

Ne parlo poco perché sono arrivati da poco. Anzi, per la verità ce li hanno chiamati, al governo, i loro predecessori con gli errori, scivoloni, la mancanza di prospettive. Il sottotitolo che avevo scelto era: “Il potere in Italia da De Gasperi a Dudù”, il cane di Berlusconi. Ero andato in fissa con Dudù, attraverso cui mi pareva efficace raccontare la lunga coda del berlusconismo terminale, a partire dal fatto che solo un cane al dunque non lo aveva tradito. Ma nel frattempo c’era stato il 4 marzo e si era resa evidente la chiusura di un ciclo; e i librai, che per gli editori sono come degli oracoli, hanno notato che Dudù invecchiava il libro. Per cui ho aggiunto quella che è una specie di appendice su “questi qua”. La definizione suona sprezzante e me ne dispiace, non è nel mio carattere e stride con il registro pacificato della scrittura. È chiaro che siamo tutti coinvolti in una rotolata giù per la china; e se dovessi scrivere una storia del giornalismo potrei pacificamente sottotitolarla “da Montanelli a Ceccarelli”. Comunque avevano ragione, gli oracoli.   

Figli delle stelle e della tivù?

Un po’ sì, nel senso che rispetto a come era iniziata la Repubblica questi qua sembrano venire da lontananze siderali. Ma poi, se vai a vedere bene, specie negli ultimi anni c’erano le premesse per la loro venuta. Il campo era stato ben concimato. Scemenze, ignoranza, buffonate, incapacità, guittismi. Renzi è chiaramente l’anello di congiunzione: manca di qualsiasi forma di umiltà, parla per battute e richiede una soglia d’attenzione che supera i 7-8 secondi, veste allo stesso modo, con quella camicia bianca aperta, sta sempre appiccicato allo smartphone. Più che da una generica tv, poi, non mi pare un caso che sia lui che Salvini vengono dai tele-quiz, un genere televisivo che impone di essere rapidissimi. Entri che sei uno sconosciuto e dopo quattro settimane sei un personaggio pubblico. Certo anche i tempi di consumazione si sono accorciati, oggi questi qua ci sono, domani vai a sapere.   

Dalla coralità democristiana ai personalismi, quasi monarchici, di Berlusconi, Renzi e Salvini: è questa la debolezza, che lega il grande destino alla vita dei singoli leader, dell’attuale potere politico?

La mutazione rispecchia un po’ anche quella della società italiana, che è passata da una dimensione collettiva a una frammentazione individualistica, ma non vorrei fare il sociologo, avventurandomi piuttosto sul terreno dell’estetica. Per cui, con temerario slancio, oserei proporre questa sequenza. La Prima Repubblica ebbe una scena ufficiale, che comportava il retroscena; la Seconda, sotto l’impulso di Bossi e soprattutto di Berlusconi (ma subito imitati dai loro concorrenti), conobbe il primato della messinscena; la Terza Repubblica si caratterizza per la sua scena oscena. Non tanto nel senso dell’oltraggio al pudore, che pure non manca, ma della coincidenza, compenetrazione e nello scontro continuo tra parole, concetti nati per stare separati e costretti a mischiarsi per effetto del crash e del trash. Aggiungo che “Obscenus” in latino viene dal linguaggio degli indovini e vuol dire anche “di cattivo auspicio”. 

Invano”, alla fine, è il libro della sua vita e, molto francamente, nell’ultima pagina ammette che il potere non è un red carpet e che quasi mai rende felici. Lei ha capito, fuori da questo grande circo, come si sopravvive al potere?

Boh, forse tenendosene lontani, ma già scriverci sopra mille pagine non mi pare sia la cosa più efficace. Prego che il Signore mi protegga e mi tenga sempre la Sua Mano, quella sì veramente potente, sopra la capoccia.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.