“La città è dei bianchi” di Thomas Mullen: è così che si scrivono i gialli

by Francesco Berlingieri

Thomas Mullen
La città è dei bianchi
(Rizzoli, 470 pagine, 20 euro)

Sono uno pieno di pregiudizi, lo ammetto. Ho tutte le mie convinzioni incrollabili, i miei schemi predefiniti, le mie verità inscalfibili. Per questo, dinanzi ai quasi trenta titoli della collana Nero della Rizzoli, ho dapprima scartando tutti gli autori dal cognome veneto; poi i romani, i campani e, da ultimo, gli italiani. Ho ristretto il novero, ho ridotto la scelta. Perché, per mio inveterato convincimento, i giallisti non possono essere nati in Italia.

In Italia nascono i magistrati che scrivono polizieschi, i giornalisti che scrivono polizieschi, i politici che scrivono polizieschi. Ma il noir è, sempre agli occhi della mia ortodossia, altra storia. Ha un respiro sociale, gronda denuncia, abbonda nelle descrizioni del contesto. Non è solo un ispettore che indaga su plurimi omicidi e nel frattempo si innamora. Non è solo tecnica investigativa e commissari anticonformisti.

Quindi, tra i superstiti, ho pescato La città è dei bianchi, di un tale Thomas Mullen. Che è un mio quasi coetaneo di Providence, che è cresciuto nell’Illinois e ha cinque libri all’attivo, di cui solo due tradotti nella nostra lingua imposta. Tra una peripezia e l’altra, l’ho finito stamattina. Ho pregato sommessamente, dinanzi alla barriera delle ultime sette pagine, che nelle ultime sette pagine non finisse tutto a scatafascio. Che non ci fossero, altresì, sparatorie, smitragliate, bombe a mano e morti a non finire. Che un finale pulp non andasse ad intaccare la paziente tela di Arianna della trama. Quando ho chiuso il tomo ho tirato un grosso, salvifico sospiro di sollievo. E mi sono detto: “Francé, sta cosa la devi scrivere. Devi dire che La città dei bianchi è un gran libro. Devi dire che è così che si scrivono i gialli”.

La storia inizia ad Atlanta, Georgia, nel 1948. Sono passati più di quarant’anni dall’ultima grande cacciata dei neri. Dal pogrom che li ha riportati nei ghetti. Nel frattempo, la guerra in Europa e nel Pacifico ha permesso ai reietti di colore di indossare una divisa, di combattere il nazifascismo, di morire per l’America. E il Sud che ancora innalza monumenti ai caduti Confederati, non può ignorarlo. Tanto più che i neri, ora, votano. Così, il sindacato di polizia ha dovuto a malincuore espellere i membri del Ku Klux Klan e i senatori democratici hanno dovuto accettare le leggi anti-linciaggio. In Aburn Avenue, nella Darktown della metropoli, una macchina becca in pieno un lampione. Proprio nel turno di guardia, a piedi, della prima pattuglia di sbirri neri. Ne sono otto in tutto e fanno appello e contrappello nella sede della YMCA. E sono odiati da tutti, dai poliziotti bianchi in primis. Un giorno, probabilmente, riusciranno ad avere una macchina e a sorvegliare il loro quartiere nero. Ma, ai tempi della storia, nessun bianco li prende sul serio. A cominciare dall’autista dell’auto finita sul lampione. Che è in compagnia di una ragazza mulatta. E li manda a quel paese prima di filare via. A poche ore dal ritrovamento del corpo della ragazza, in una discarica.

La città è dei bianchi è un affresco storico. Poche storie. La ricerca di una verità impossibile da svelare si rivela, pagina dopo pagina, per il suo reale valore simbolico: il desiderio di un’intera comunità di uscire dalla segregazione e contare, esser presa sul serio, dimostrare capacità e determinazione in un micro-mondo in cui ancora si impiccano i neri ai pali e le croci bruciano nella notte. La città dei bianchi è un noir e molto di più di esso: è un nervo scoperto dell’America, dove non ci sono parole consolatorie e reverendi battisti capaci di lenire il dolore insopportabile di un’ingiustizia. Va letto e apprezzato. Fidatevi dei miei pregiudizi. 

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