La disperazione nera de “Gli affamati”: l’esordio di Mattia Insolia

by Felice Sblendorio

In copertina sembra ci siano i protagonisti di questo romanzo nello scatto del visionario Ferdinando Scianna. Sembra ci siano proprio Antonio e Paolo, i giovani che divorano il presente e maledicono l’esistenza di chi è oltre il loro legame, de “Gli affamati” (Ponte alle Grazie, 176 pagine, 14.00 euro), l’esordio narrativo di Mattia Insolia, venticinquenne scrittore siciliano e collaboratore del magazine culturale L’Indipendente. Esordio definito, sostenuto dal compianto Luigi Spagnol, e apprezzato da Teresa Ciabatti come un «romanzo sorprendente di uno scrittore giovanissimo, eppure già maturo».

In una serrata cronaca di formazione anarchica, selvaggia, senza punti di riferimento percorribili, Insolia tratteggia – alternando momenti compiuti e altri più acerbi – le due esistenze marginali di Antonio e Paolo, adolescenti cresciuti nell’ombra riflessa del loro nulla. La formazione, il rapporto speculare dei due giovani, le diseguaglianze che diventano esclusioni e realizzano una vita spezzata nella provincia senza volto e nome di un Sud tipico, i confini della rabbia e della trasgressione che eccedono e contaminano ogni spazio umano. Ancorandosi alla trama e ai profili dei due protagonisti, l’autore racconta una disperazione cupa che non riesce a risolvere il suo tormento in luce. Una disgrazia, considerando la loro età, che risolverà la sua forza solo nell’assenza: perdersi, dopotutto, non è stato mai così vitale. bonculture ha intervistato Mattia Insolia.

Due fratelli, una vita da ricostruire e il vuoto: famigliare, sociale, esistenziale. Gli affamati sono i superstiti di una terra di lotta, che è la vita, senza punti cardinali. Da dove arriva questa storia?

Non so rispondere, perchè neppure io so da dove venga. Un giorno non c’era, il giorno dopo sì, e pretendeva la mia attenzione e mi pareva la cosa più naturale del mondo seguirla. Forse è un discorso astruso, ma per me la scrittura funziona così: in parte è ascolto. Porgo l’orecchio ai personaggi, per certi versi. Loro mi si mettono vicino, desiderosi di raccontarsi, e io provo a seguirli. Ecco, quando ho iniziato la stesura de “Gli affamati” Antonio e Paolo, i fratelli protagonisti della storia, erano ritti accanto a me. In sostanza, quindi, sono nati prima loro. Li vedevo: avevano forme chiare, definite, nette. E la storia si è sviluppata attorno a loro. Volevo raccontare di questi due fratelli, che vedevo poverissimi, tanto confusi e parecchio incazzati. E volevo raccontare tutta la loro rabbia, un sentimento forte, in tutto definitivo e in sé autodistruttivo.

Le mancanze di questi due giovani sono degli spettri in agguato che rivendicano un potere. La loro crescita vive nei confini di quest’ambiguità?

Ci sono dei confini entro cui i miei ragazzi si ritrovano a vivere. Confini naturali, fisici ed emozionali, che li relegano a una posizione bassa da cui fuggire è parecchio complicato. Per questa ragione, una crescita non può essercene. Le restrizioni a cui devono sottostare Antonio e Paolo non permettono neanche di poter aspirare a un qualsiasi miglioramento. Hanno delle forme, i miei affamati, e in questi incastri devono sopravvivere. Senza mai modificare ciò che hanno attorno: senza mai modificare sé stessi.

L’amore, qualunque cosa sia – una salvezza o una condanna, sembra sia marginale: i fratelli si accontentano di surrogati, di esperienze interrotte, a volte di tentativi falliti di nominazione dei sentimenti. Non c’è spazio, nel dramma, per l’amore?

No, la rabbia ha bruciato ogni cosa. La vita dei due fratelli è un campo di sterpaglie annichilito da un incendio estivo. L’unico amore che sopravvive a questa devastazione è quello che nasce per necessità, cioè quello che unisce Antonio e Paolo. Il loro sentimento, l’amore che provano l’uno per l’altro, è reale, genuino ed è incrollabile, ma ha una natura storta: si amano, ma si amano perché devono.

L’amore, però, più che dovere è appartenenza.

Ognuno di noi, credo, ha bisogno di sentirsi appartenere a qualcosa, legato imprescindibilmente a qualcuno. La solitudine che deriverebbe dal contrario sarebbe mortale. E i fratelli, nel loro modo contorto, si amano perché avvertono la necessità di aggrapparsi l’uno all’altro.

Il desiderio, invece, ritorna spesso in queste pagine in una forma bulimica, da cannibalizzare senza un perchè. Quanto vuoto dell’esistenza contiene questa ricerca cieca di vitalismo?

Il vuoto riempie ogni cosa. Riempie gli stessi Antonio e Paolo, e li riempie tanto da svuotarli di ogni altra materia. Da questa pienezza di niente, che è assenza di tutto, deriva la loro spinta cieca, furiosa e senza meta verso qualcosa che loro intravedono come un non ben identificato “meglio”. I fratelli non si sentono vivere, piuttosto si sentono sopravvivere, e nella loro spasmodica ricerca di vita vanno verso ciò che credono possa aiutarli, anche se in realtà non hanno idea di cosa possa farlo. In questa inesausta lotta per il raggiungimento di una situazione idealmente migliore risiede tutto questo vuoto. In parte nasce lì, ma è da lì che vive in tutto e per tutto.

Accanto al desiderio c’è la rabbia che prosciuga tutto: una rabbia privata, difficilmente preoccupata delle strutture della società. Che cosa ha prestato, del suo trascorso personale, alla loro rabbia?

La loro rabbia è la mia. A voler parlare di elementi prestati ai miei personaggi, credo che questa sia la più grande, sicuramente la più aderente al mio reale. Il non sentirsi adeguati al mondo, compresi e di conseguenza amati, parte di un gruppo, valutati per le proprie capacità; liberi di amare, di ferire, di morire. In questa condizione racchiudo tutto il mio trascorso personale e oggi questa rabbia che ho prestato a loro, forse, non mi appartiene più. O meglio, mi appartiene, sì, ma risiede in un angolo appartato di me. Come se Antonio e Paolo, mostrandomi a cosa sarei andato incontro se non mi fossi fermato, avessero esorcizzato i miei dolori e, in parte, calmato i miei bollori.

Scenario di questa umanità rabbiosa è Camporotondo, una periferia in un lembo del Sud dove la disperazione è una pratica quotidiana e le possibilità sono un miraggio. Chi resta, nella provincia statica che racconta, è un predestinato a cui è preclusa l’incertezza del futuro?

Sì, è così. Camporotondo, un paesino frutto di fantasia, è una sorta di recinto per polli: chiuso, asfissiante, sovraffollato di anime moribonde fin dalla nascita. Chi resta è predestinato a vivere un futuro già scritto. E non scritto seguendo regole che calzano alla persona in questione, quanto piuttosto buttate giù da un’entità, figlia del contesto sociale e dell’involuzione storica, che tutto può e niente vede.

Nella tragicità finale delle vite di Antonio e Paolo una stilla di speranza resiste nel fondo. Questa luce, però, passa dal terreno della perdita. È un passaggio inevitabile?

Herman Melville disse che «al mondo non esiste qualità che valga in sé, se non per contrasto», e io credo che anche la felicità debba sottostare a questa regola. Per riconoscere la luce, penso si debbano attraversare le tenebre. Il dolore è un insegnante formidabile. Se si è capaci di elaborarlo bene, di metabolizzarlo, di usarlo pure, in certi casi, piega l’individuo senza mai spezzarlo; è la resilienza di cui ci parla Sandro Veronesi nel suo “Il colibrì”. Uno dei due fratelli del mio romanzo muore, e la perdita per il superstite è un passaggio che risulterà fondamentale per superare quel dolore precedente che si stava facendo compagno di vita; che si apprestava a spezzare l’individuo, non limitandosi più a piegarlo.

«A far male è la vita che cerca di resistere, ma il tormento di essere viva stava finendo» scrive Emmanuel Carrère in “Vite che non sono la mia”. Questo tormento è molto presente nelle vite dei due protagonisti: quale lato della loro unione finisce definitivamente?

L’unico a finire è quello fisico, poi sopravvive tutto. E credo che un ragionamento simile possa farsi con la fine di ogni grande amore – e d’altra parte, tra Paolo e Antonio c’è un amore di fondo enorme, una fede cieca senza limiti. Quando si ama, quando si ama davvero di quell’amore che scava dentro e brucia tutto, nel momento in cui il rapporto finisce, si interrompe solo il legame fisico. Il resto penso sia destinato a rimanere, a sopravvivere; forse in altre forme, forse arrivando a vivere vite che non credevamo potessero essere nostre.

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