La gentilezza politica di Gianrico Carofiglio: «La gentilezza è una virtù combattiva che richiede coraggio per essere esercitata»

by Felice Sblendorio

Il miglior lancio editoriale del nuovo libro di Gianrico Carofiglio, “Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose” (Feltrinelli, 120 pagine, 14.00 euro), è andato in onda martedì scorso nel talk-show di La7 condotto da Giovanni Floris. Carofiglio, dialogando con il leader della Lega Matteo Salvini, ha efficacemente messo in pratica alcune delle virtù e delle tecniche comunicative prescritte in questo agile manuale di difesa linguistica. In quel confronto, fra un sospiro e una risata dell’ex Ministro dell’Interno, lo scrittore barese si è riappropriato – nel terreno scivoloso del piccolo schermo, molto spesso inadatto all’articolazione del pensiero e alla destrutturazione dei messaggi di propaganda – del metodo ordinario del dibattito politico.

L’ex magistrato, infatti, ha utilizzato con Salvini la prima tecnica di questo elenco di regole e prescrizioni per ripararsi dalle contaminazioni della cattiva politica: la gentilezza. Virtù ignorata, considerata quasi una resa, che Carofiglio valorizza. «La gentilezza, la cedevolezza, la non durezza di cui stiamo parlando è una sofisticata virtù marziale. È una tecnica, ma anche un’ideologia per la pratica e la gestione del conflitto. Il conflitto è parte strutturale dell’essere e questo dato ci costringe a scendere a patti con l’idea che il modo in cui vediamo le cose non è l’unico possibile. La pratica della gentilezza non significa sottrarsi al conflitto. Al contrario, significa accettarlo, ricondurlo a regole, renderlo un mezzo di possibile progresso e non un evento di distruzione».

La gentilezza, che sfida la violenza verbale, diventa così una virtù combattiva opposta alle prove di forza esibite, capace di aprire al confronto, riscrivere una grammatica di interazione, abbandonare la vuota e sterile prevaricazione che molti, quasi tutti, considerano la tecnica più sicura per vincere un conflitto, per affrontare un avversario. Carofiglio, in queste pagine più snelle e immediate del suo precedente “La manomissione delle parole”, ci dice che la gentilezza è coraggiosa, è utile. Perchè serve, sostanzialmente, a difendere il pensiero dagli slogan, a diffidare dall’idea che i manipolatori della politica siano bravi comunicatori, sostenendo l’intelligenza e la razionalità come doti indispensabili per sottrarre efficacia e respiro a una comunicazione che, sia nei metodi che nei meriti, si nutre di contraffazioni, illogicità, violenze, speculazioni logiche, fallacie.

Proprio alle fallacie, gli errori nella costruzione di un discorso, sono dedicate le pagine più interessanti. Fra le tante analizzate e descritte, la fallacia dell’argomento fantoccio anima e muove la politica attuale. «Quella del cosiddetto argomento fantoccio consiste nella scorretta rappresentazione della tesi che si vuole contrastare», sottolinea Carofiglio. «Tale tesi viene esagerata, a volte rappresentata in modo caricaturale, e all’avversario vengono attribuite parole che non ha pronunciato o concetti che non ha espresso». L’altra fallacia molto in utilizzata, che disumanizza il dibattito, è quella dell’argumentum ad hominem (argomento contro l’uomo) che «contrasta le argomentazioni dell’avversario senza entrare nel merito e sferrando invece un attacco personale. L’interlocutore viene aggredito, minacciato, deriso, screditato, mentre il contenuto della sua posizione è del tutto ignorato».

Tutte queste riflessioni, che incoraggiano un discorso politico aperto al dubbio, al fallimento e all’ironia, sono preziose in questo tempo dominato dall’inflazione della cattiva parola. Le parole, come hanno scritto i pensatori di tutti i tempi, hanno bisogno di cura e di una cittadinanza in uno spazio politico che possa guidare il popolo più che essere guidato come ricordava Pericle di Tucidide. Ritornano in mente, proprio su questo tema, le parole di Don Lorenzo Milani a Ettore Bernabei: «Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». Forse è arrivato il momento di cominciare a difendere, con il coraggio della gentilezza, la nostra identità linguistica: l’unico destino possibile per l’idea di mondo che verrà.

bonculture, in attesa della lectio dello scrittore ai Dialoghi di Trani in programma domani sera alle ore 21.00, ha intervistato Gianrico Carofiglio.

Niccolò Fabi in una canzone afferma: «Cominciamo a insegnare la gentilezza nelle scuole, che non è dote da educando ma virtù da cavaliere». Il suo breviario parte proprio da qui: la gentilezza, nel dibattito pubblico, non è una resa ma una possibilità.

È così. La gentilezza di cui parlo è cosa diversa dalle buone maniere, dal garbo, dalla cortesia che pure sono doti auspicabili. La gentilezza di cui parlo è una modalità per affrontare il conflitto – inevitabile nelle nostre esistenza individuali e collettive – e risolverlo in modo non distruttivo. Per questo la gentilezza è una virtù combattiva che richiede coraggio per essere esercitata.

Contro l’arroganza e la manipolazione bisogna spezzare il meccanismo umanizzando i conflitti. Ma come ci si difende e come si riscrive una grammatica condivisa di dialogo?

Uscendo dalla trappola narcisistica dell’ego, imparando ad ascoltare gli altri, accettando che esistono ragioni anche nei punti di vista diversi dal nostro. Il che naturalmente non significa essere remissivi e abbandonare le proprie convinzioni. È esattamente il contrario.

La fallacia del falso dilemma, però,costringe il pensiero in due polarità: bianco, nero; bene, male; pro, contro. Le sfumature, che consentono al ragionamento di aprirsi alla complessità e al dubbio, non sono più ammesse?

Certo che sono ammesse. È un dovere confrontarsi con la complessità, rifiutando le semplificazioni del discorso pubblico dei populisti.

In queste pagine cita Klemperer e “La lingua del Terzo Reich”. In quel taccuino il filologo annotava: «Costantementeè possibile avvertire il timore nei confronti dell’essere pensante, l’odio per il ragionamento». Oggi, come ieri, il pensiero è sostituito da simboli, le domande dalle risposte, l’ascolto da una comunicazione sorda, il dubbio da certezze incrollabili. Senza più l’elaborazione teorica della politica matura così la “democrazia del narcisismo”?

Matura così, ma è possibile contrastarla e sconfiggerla con la consapevolezza delle buone ragioni e munendosi di un armamentario tecnico-argomentativo che ci consenta di affrontare e sconfiggere i manipolatori e i bari della politica.

Sviluppa una distinzione fondamentale fra i comunicatori e i manipolatori. Nel Paese c’è uno scontro fra i cittadini della parola e i padroni del linguaggio?

Direi di sì. Quelli che lei chiama i cittadini della parola devono attrezzarsi per affrontare e sconfiggere i demagoghi di ogni colore.

L’esattezza della parola è un patto di verità. Già in un suo celebre saggio, “La manomissione delle parole”, notava un logoramento e una perdita di senso di alcuni concetti. Parole come “popolo”, “poveri”, “straniero”, “sicurezza” ci sembrano depredate o alterate. Queste parole offese come ci cambiano?

C’è un problema di perdita di senso che va contrastata con tutte le forze. Diceva Confucio: quando le parole perdono di significato, gli uomini rischiano di perdere la libertà.

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