“La gioia fa parecchio rumore” di Sandro Bonvissuto è una storia nostra

by Francesco Berlingieri

Sandro Bonvissuto
La gioia fa parecchio rumore
(Einaudi, 187 pagine, 18,50 euro)

Non ho fatto caso al segnalibro. Mi serviva qualcosa, qualcosa a caso, qualcosa di più spesso e solido della carta da stampante. Ho preso, senza neppure guardare, un tagliando dal portaoggetti.
Solo a sera, riaprendo il libro al punto, mi sono reso conto di cosa avevo scelto.

Il biglietto di Foggia-Pontedera, primo turno di Coppa Italia, Duemilasedici.
Non sono rimasto perplesso. Anzi. Ho pensato che, per la prima volta, segnalibro e libro mi stavano raccontando, a modo loro, la medesima storia. Sandro Bonvissuto attraverso un linguaggio scaltro, picaresco, a metà tra il dialetto e il sublime. Il biglietto attraverso la sua semplice materialità di rimando. Perché Bonvissuto sa – e se non sa, deve sapere – che le luci dello “Zaccheria” col Pontedera sono identiche a quelle dell’Olimpico col Carl Zeiss Jena; che i gradoni sono gradoni, la comunità è comunità, la fede e la passione sono le medesime. A qualunque latitudine.
Certo, è ovvio, ‘sti cazzi, cambiano le prospettive. La Roma di Bonvissuto è un’eterna città magica, inondata dal sole impiegatizio dei primi anni Ottanta, resa speranzosa – sulla sponda giallorossa – dall’arrivo dell’Eroe, del campione brasiliano che dividerà il mondo conosciuto in un prima e dopo. È la Roma dell’innamoramento fondamentalista di un bambino e dell’amore consolidato dei suoi mentori, una schiera di parenti reali e presunti, di compari e correligionari, che guardano al virgulto come all’ultimo cucciolo della specie. Un cucciolo che attraversa i riti dell’iniziazione al calcio, che poi sono quelli segnanti, propedeutici alla vita di società. Di comunità.

Qui – e Bonvissuto, nonostante il romacentrismo, lo sa o dovrebbe – era esattamente lo stesso.
Con ogni bambino adottato dal branco dei maschi adulti e salutato come i monaci salutavano i novizi. Con festa e tripudio, certo, ma anche con sospetto e attenzione, che ‘sti giovani devono ancora dimostrare tutto: attaccamento, disciplina, abnegazione.

Al netto della lunaticità romana, del bipolarismo di chi passa dalla battuta al pianto disperato in un nanosecondo, relativizzata la storia dei perdenti con la storia di chi ha perso ancora di più, universalizzato il luogo oltre la bellezza abbacinante della scenografia urbana che si ritrova, “La gioia fa parecchio rumore” è una storia nostra. La storia di tutti noi, pargoli coscritti da campo sportivo, anime candide trascinate nell’agone degli adulti ed obbligate a guardare un rettangolo verde in cui, ci dicevano in sostanza, prima o poi sarebbe apparso quel che eravamo. La nostra reale tempra di uomini. Pavidità e coraggio, determinazione o panico, emozione o freddezza. Qualunque tratto del nostro carattere avessimo senza ancora saperlo, l’avremmo conosciuto – prima del tempo – guardando una partita di pallone. Come fissando una palla di vetro.

C’è la storia nostra, nel libro di Bonvissuto (che Einaudi, superando un pregiudizio atavico, ha deciso di pubblicare in una signora collana), la storia di chi, per mera fortuna anagrafica, ha conosciuto uno squarcio di secolo irripetibile come il suo calcio, che ha potuto guardare il mondo dal basso con la sensazione tattile che allungando un braccio avremmo, tutti, potuto toccare le sfere celesti. Illusione, magari, ma splendida.
“La gioia fa parecchio rumore” è un libro di terra e di stelle, il racconto autentico di un sentimento che è esclusivo e collettivo, che parla con la voce del singolo mentre si perde nel coro di una curva.

Quando si giocò Foggia-Pontedera ero già diffidato. Ergo, non l’ho mai vista.
Non so perché mi ritrovi il biglietto. Probabilmente perché la passione travalica l’esperienza fisica della presenza tangibile. O forse perché la misterica comunità dei tifosi alla quale appartengo aveva stabilito, dal Duemilasedici, che il biglietto di quella partita non vista sarebbe diventato, oggi, il segnalibro di questo romanzo. Accettiamolo senza chiederci oltre. Come si fa sugli spalti: per fede.

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