«La grande conquista è liberarsi dal potere e dall’influenza dello sguardo degli altri». Nel Bianco di Francesca Mannocchi

by Felice Sblendorio

La voce di Francesca Mannocchi è ferma e dolce come la sua figura. Risponde con calma, processando dentro di sé ogni parola: «Mi fermo», dice. «Perché cerco sempre le parole giuste», aggiunge. In “Bianco è il colore del danno” (Einaudi, 216 pagine, 17.50 euro), per lei semplicemente «il Bianco», questa cronista che interroga il mondo raccontando le povertà e le guerre si è dovuta fermare per guardarsi dentro e per raccontare un imprevisto della sua vita: la malattia. Sclerosi multipla, per la precisione. Una malattia potenziale racconta l’autrice in questo romanzo limpido e toccante, disabilitante del cervello e del midollo spinale. Una malattia potenziale.

Bianco è un libro che guarda alla malattia attraverso la storia di un corpo, di una cura, di una persona, di una collettività. Lo possiamo considerare un libro politico?

Se ti dovessi dire che cos’è Bianco ti direi che è un romanzo, un romanzo su un noi che non è solo un noi familiare, un esercizio archeologico che ho fatto sulla mia famiglia, sulla mia storia, sul mio corpo. Mi piace pensarlo come un lavoro di auto-socio biografia, seguendo le orme di Annie Ernaux. Credo che il significato politico di questo libro sia proprio questo: il Bianco smette di essere la mia storia quando finisce su carta, e quando ci finisce succedono due cose: diventa la storia di tutti quelli che lo leggono, per prossimità o per semplice adesione, e poi comincia a parlarmi. Credo sia questa l’azione veramente politica della letteratura.

Si fa politica quando si guarda a sé facendosi carico di un noi?

Mi scrivono molti pazienti, familiari, medici di vario tipo. Questa corrispondenza per me è un privilegio, che mi ricorda quanta responsabilità abbia la letteratura nell’affrontare certi temi e quanto ci sia bisogno di un parlarsi comunitario su alcune questioni legate alla sanità pubblica, alla vita negli spazi ospedalieri che si incrocia con la vergogna, la paura, la vulnerabilità, l’imprevedibilità. Tutti questi temi fanno parte di una patologia, ma devono diventare anche parte integrante di una cura.

Parla di vulnerabilità e scrive che «la lucidità è la ferita più prossima al sole». È una condanna la nostra presuntuosa volontà di essere sempre lucidi, controllati, finiti?

Io ho tentato di applicare al mio corpo, che mi diverto a immaginare come il mio hard disk interno ed esterno, lo stesso rigore e lo stesso metodo di quando racconto le povertà italiane, i conflitti, le migrazioni e tutte le altre cose del mondo di cui sono curiosa. È un po’ quello che cerco di spiegare a mio figlio in questo ideale passaggio di consegne: l’idea che le parole siano uno strumento, un metodo. Un metodo che mi spinge alla continua ricerca di un’identità che, per me, è quasi una condanna a vita. In questo senso credo che il rigore e la lucidità siano una condanna, perché ti pongono continuamente nella posizione di non fare e non farsi mai sconti, coinvolgendoti anche in una ricerca di significati profondi. Significati sorprendenti o deflagranti, perché a volte gli interrogativi che ci poniamo ci danno delle risposte inaspettate.

Nel libro si domanda: «Dove finisce la razionalità dei razionali di fronte alla malattia?». La razionalità, nel rapportocon una malattia, vacilla?

Di fronte a una malattia la razionalità deve diventare un’attitudine agonistica. Perché ci sono dei momenti nel buio delle notti, ma anche al sole, in cui la lucidità non basta quando arrivano degli interrogativi rabbiosi che mi chiedono dell’ingiustizia della malattia. Allora: che mi curo a fare se la malattia non si vede? Oppure: perché mi faccio una terapia se questa malattia non guarisce? E, ancora: perché devo fidarmi della scienza se la scienza non sa molte cose su questa malattia? Quando queste domande arrivano dobbiamo fare un esercizio di lucidità ricordandoci che cos’è la scienza. Che non procede per traguardi facili e sicuri, ma per errori, tentativi e correzioni. Sono queste correzioni che hanno fatto sì che negli ultimi 25 anni ci siano stati progressi straordinari su questa malattia. Questo effettivamente è un esercizio di faticosa razionalità.

Scrive che per vivere con la malattia bisogna scendere a patti con la rabbia.

Quando parlo della malattia dico sempre che lei è entrata senza bussare, ma ora è qui, ed è arrivata per restare. Quindi io non posso non farle spazio. Quello che posso fare è farla sentire molto scomoda e, magari, se la faccio sentire tanto scomoda non dico che diventerà inoffensiva, ma almeno sarà meno rumorosa soprattutto nelle mie notti. Questa strategia di comprensione e resistenza coinvolge necessariamente tutta la nostra comunità: la famiglia, i colleghi, la famiglia che scegliamo di avere da adulti, i nostri confidenti. Direi anche le persone che scegliamo di non avere più accanto: perché la malattia ti rende molto intransigente. Lo ero già prima, ma è come se a un certo punto io abbia preso le cesoie per tagliare tutti i rami, tutte le foglie secche di cui non avevo più bisogno.

A proposito delle sue notti insonni, del sonno incostante. Dopo il buio, arriva la luce: in questo libro, nelle sue foto, nella sua vita. La luce è una promessa di speranza?

C’è una frase nel carteggio fra Hannah Arendt e Martin Heidegger a cui penso sempre mentre aspetto che faccia giorno per dire: «sono salva». Dice: ci sono ombre solo dove c’è luce. È proprio così: la stessa cosa, saltando di citazioni in citazioni, dice il mio amatissimo Rilke: se i miei demoni mi abbandonassero temo che anche i miei angeli volerebbero via. Credo succeda questo in quelle notti. Ma quella luce trasversale che c’è, quella luce che cerco, è una luce che viene a farti una carezza dicendoti: «è passata anche questa notte, sei salva». Anche lì c’è un tema di lucidità e rigore: da quelle notti che ti braccano non bisogna scappare, perché hanno tanto da dire. Se non le avessi ascoltate quelle voci troppo rumorose, forse non avrei consolidato questa mia lucidità.

Cita la poetessa Mariangela Gualtieri:«Spezzare l’avversario oppure/Oppure farne un alleato». La malattia non è mai un’alleata?

Un’alleata no, ma lei è la mia migliore nemica. La malattia credo sia uno strumento che ha rafforzato delle cose che c’erano già in me. Gli imprevisti, e ci metto la malattia come tante altre cose, possono essere delle rivelazioni nelle nostre vite. L’imprevisto prende il calendario e dà un nuovo significato al tempo: bisogna essere sordi per non ascoltare quei suggerimenti.

In questi mesi la pandemia ha mutato priorità, certezze, abitudini facendoci vivere un tempo incerto. La sensazione, però, è che si stia aspettando la fine della tempesta. Perché non siamo riusciti a stabilire una convivenza con il virus?

Nella prima settimana di lockdown non riuscivo a spiegarmi perché mi trovassi così in asse, in bolla. Piano piano mi sono resa conto che questo risveglio collettivo con l’imprevedibile io lo stavo già sperimentando da 4 anni. Avevo già qualche strumento in più messo da parte. Ci sono molte affinità, però, con quello che stiamo vivendo. La prima: c’è un desiderio collettivo di ritornare come prima. In medicina si chiama restitutio ad integrum: ti sei ammalato, ti curo, ti riporto come prima. Forse, però, non sarà così perché sono sicura che non torneremo come prima. L’altra analogia è che noi ci sentiamo invasi da uno sconvolgimento collettivo, ma trattiamo la malattia come qualcosa che colpisce solo l’individuo. Manca la condivisione di un fenomeno deflagrante in una modalità collettiva che diventi una collettiva rivelazione. Abbiamo voglia di ripensare la matrice economica, le griglie culturali con cui pensiamo l’economia? Abbiamo voglia di ripensare lo spazio ospedaliero, il sistema scolastico? Queste sono le piccole ed enormi rivelazioni su cui dovremmo lavorare.

Forse non c’è tutta questa voglia.

Noi, proprio come nel mondo del giornalismo, siamo abituati a prendere un evento del genere e viverlo, digerirlo e archiviarlo come un’emergenza, come qualcosa che accade, si deve contrastare, bisogna risolvere per poi tornare a quelli che eravamo prima. Ci stiamo privando della possibilità di trasformare un evento sfavorevole in qualcosa di generativo.

Vivere nel tempo del «non so», come lo chiama lei, è il disagio più profondo? A me la risposta «non so» piace tantissimo. Perché mi piacciono tutte le cose che non sono definitive. Noi siamo creature in continua mutazione: lo sappiamo fin da quando nasciamo, ma poi allontaniamo questo pensiero. La condizione di non sapere, se la vuoi ascoltare, è una condizione privilegiata perché stimola uno strumento preziosissimo per vivere: la capacità di fare domande. Che stimolano la nostra potenza creativa e quella di chi deve risponderci.   

Bianco è un libro che parla molto del tempo.Cosa significa non possedere più il proprio tempo?

Per me è stato più un problema di controllo. Io sono una maniaca dell’autocontrollo e oggi su molte cose che riguardano la malattia io non ho più quel potere di controllo. La mia malattia dipende da un impazzimento del sistema immunitario, non da me. Scendere a patti con la priorità della cura del tuo corpo, che prima non consideravi e che ora è lì, è la cosa più complicata.

In queste pagine c’è anche un suo personalissimo lessico familiare. Sono le parole più problematiche per la sua storia?

Sì, perché alla soglia dei 40 anni avevo bisogno di individuare dei nodi e tentare di scioglierli. Ci sono state delle fratture dolorose da scavare: il tema della malattia, del corpo, della paura, di alcuni congedi, del sacrificio della mia linea matriarcale. Nominare le cose significa non soltanto crearle, ma battezzarle, dare a loro una vera patente di esistenza: ti nomino, dunque esisti. Vale per i sentimenti, i non detti nelle famiglie, le paure, le ambizioni, ma anche per le malattie.

Forse si è ammalata per essere una figlia. In tutta la vita non chiediamo che uno sguardo?

Cerchiamo uno sguardo che ci sostanzi, che ci veda come noi pensiamo di vederci: uno sguardo che ci corrisponda.

Non è un esercizio di presunzione?

Lo è. La grande conquista, infatti, è liberarsi dal potere e dall’influenza dello sguardo degli altri. Quello sguardo rischia di determinarci. Non percepire l’influenza dello sguardo degli altri è una cosa faticosissima, ma è la vera ricetta per la libertà.

Lei ci riesce sempre?

Inciampo. A volte ci riesco, a volte ho bisogno di riconoscimento. Ho bisogno di pensare che quello che vedo io di me lo vedano anche gli altri. Di solito, però, ho chiaro quando mi guardo allo specchio che quello che devo vedere io, lo devo vedere io.

Che cosa proietta lo sguardo della madre sul figlio?

Proietta alcuni errori che faccio naturalmente, perché siamo tutti fallibili. Quando mi rimbocco le maniche, invece, vedo una creatura a cui devo fornire degli strumenti. La vita di mio figlio è come una cassetta degli attrezzi aperta: a volte ci metto un cacciavite, a volte un chiodo, a volte un martello. Lui ne farà quello che vuole.

Bianco è uscito da un po’ di tempo e, forse, ha già cambiato qualcosa in lei. Chi è, oggi, Francesca Mannocchi?

È una donna in ascolto del Bianco. Quando avrò capito tutto quello che ha da dirmi, te lo svelerò.

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