«La storia, in certi attimi, è una macina che travolge chiunque». Giuseppe Culicchia, gli anni ’70 e il cugino brigatista Walter Alasia

by Felice Sblendorio

Fra i tanti versi in musica che si rincorrono in queste pagine, ce n’è uno che descrive bene il rapporto fra lo scrittore Giuseppe Culicchia e suo cugino Walter Alasia: sono le parole del duo Mogol-Battisti «Davanti a me, un’altra vita. La nostra è già finita».

Di storie che cominciano e finiscono parla l’ultimo libro di Culicchia, “Il tempo di vivere con te” (Mondadori, 168 pagine, 17 euro), un memoir intenso e doloroso che racconta la storia e i sentimenti dell’autore per suo cugino. Ma chi era Walter? Volto sorridente, occhi azzurri, amorevole. Un giovane degli anni ’70 che legge il Manifesto, canta Battisti, disegna per lui Zorro, Superman, una Giubba Rossa. Un giovane degli anni ’70 che sogna, ma crede troppo nella rivoluzione: entra nelle Brigate Rosse, si arma, uccide e rimane ucciso a sua volta durante una sparatoria il 15 dicembre del 1976. Sono passati quasi 45 anni e, dopo tanti romanzi, quel cugino scrittore lo ricorda in un libro sensibile e dolce, che dimentica ogni retorica nel tentativo complesso di narrare ancora quella stagione di sangue e terrore. Non ci sono né vincitori né vinti in queste storie: sul campo di battaglia degli anni di piombo restano solamente vite spezzate, vedove, orfani, famiglie distrutte. E cugini feriti dal vuoto e dalle parole che, oltre la mostruosità di certi gesti, ritrovano nei loro ricordi una traccia umana di chi hanno amato. bonculture ha intervistato Giuseppe Culicchia.

Dalla morte di suo cugino Walter sono passati quasi 45 anni, mentre dal suo primo romanzo 27. “Il tempo di vivere con te” è il libro che ha sempre cercato di scrivere?

È il primo libro che avrei voluto scrivere. Sul mio pc c’è sempre stato un file vuoto con le iniziali di mio cugino. Per tutti questi anni non ho mai capito come scrivere quella storia e non ho mai avuto il coraggio di aprire quella pagina. Dopo aver scritto “Il cuore e la tenebra”, ho capito che era arrivato il momento: ero maturato abbastanza. Ogni libro che ho scritto è stato sia un modo per tenermi alla larga da questa storia che un modo per avvicinarmici.

Il tempo cosa le ha fatto comprendere meglio?

Il tempo non guarisce le ferite, in realtà ti porta soltanto via le persone. Negli anni ’70 c’è stata una guerra civile a bassa intensità. Tante vite sono state inghiottite in quel vortice di violenza. Mi sono reso conto, però, che quel tempo era raccontato da un’unica visuale. Bisognava raccontare con uno sguardo diverso anche gli sconfitti, i cattivi: quei ragazzi che hanno sfidato il destino vivendo la loro giovinezza in un momento in cui il nostro Paese subiva la strage di Piazza Fontana, la morte di Pinelli. Si parlò subito di una strage di Stato, di mandanti, di coinvolgimenti istituzionali. In quel periodo questi ragazzi vennero stritolati da una cosa più grande di loro: la storia con la s maiuscola che annienta le vite minuscole.

Molti studiosi credono che Piazza Fontana sia stato un evento funzionale a ridimensionare responsabilità e azioni. Anche Adriano Sofri, leader di Lotta Continua, ha dichiarato: «Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima». L’innocenza, quando scoppia la bomba a Piazza Fontana, era già perduta?

Quella è una data simbolica, ma prima di quel 12 dicembre c’era già un movimento. L’innocenza, poi, edulcora un po’ la storia della Repubblica: la nostra nasce con la perdita dell’innocenza, con la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. La storia del nostro Paese è costellata da episodi e stragi che percorrono il Novecento e arrivano ad anni recenti, fino all’uccisione di Paolo Borsellino.

Accanto alla storia di questo Paese c’è la vostra storia. In questo memoir commuove il ricordo di quel cugino così affettuoso, comprensivo, al quale lei chiedeva: «Walter mi fai il solletico?».

Scrivendo di Walter ho dovuto trovare un equilibrio fra i miei ricordi di bambino e quelli dell’adulto che sono oggi. All’epoca Walter per me era grande, mentre oggi lo vedo come un ragazzino che amava scherzare e che prende sul serio quest’idea che in Italia la rivoluzione sia dietro l’angolo. Sbaglierà: questo è un Paese in cui le rivoluzioni non ci sono mai state. C’è stata solamente una controriforma, nemmeno una riforma. Di lui conservo un ricordo molto bello: senza idealizzarlo, lo ricordo come una persona affettuosa, generosa, empatica, con una voglia di vivere e una capacità di ascolto. Walter, per me, era una persona speciale.

Dopo il 15 dicembre 1976, la vita di Walter si sdoppia. Scoprite che militava nelle BR e che a Sesto San Giovanni aveva ucciso due poliziotti e, a sua volta, era stato ucciso. Cosa ricorda di quel giorno?

Ricordo che ero tornato a casa, c’era la tavola apparecchiata a metà, la mia famiglia era davanti alla televisione in bianco e nero. C’era una notizia: un terrorista aveva ucciso due poliziotti ed era stato ucciso. Fu un dolore inatteso e incredibile scoprire che quel terrorista era Walter. Non riuscivamo a collegare la parola terrorista a Walter perchè, per quanto si fosse sempre interessato alla politica, era inconcepibile che potesse armarsi. Molto preso abbiamo dovuto prendere atto della realtà. In questo libro cerco di compiere un risarcimento: Walter, dopo aver tentato di fuggire, era inerte nel momento in cui è stato ucciso. Non sparò a nessun barelliere, ma fu giustiziato. Era nelle BR, aveva appena sparato a due poliziotti in quel conflitto, ma fu comunque giustiziato: un modo singolare di esercitare la giustizia in uno Stato democratico.

La Storia e le storie si intrecciano. Le distinzioni, invece, sfumano facilmente: per comprendere quel decennio serve indagare nelle sfumature. Non c’è bianco e nero, non ci sono i buoni o i cattivi. Così, ritrovarsi un brigatista in casa non era poi così difficile…

L’unica persona che sapesse della scelta di Walter era sua madre, zia Ada. Non mi stupisce che lui si sia confidato con lei. E non mi stupisce che sua madre, pur con un enorme peso su di sé, abbia capito e aiutato suo figlio. C’è un’intervista a mia zia che mi ha sempre colpito. Dice: «Se mio figlio avesse deciso di farsi prete, cosa che conoscendolo mi sembra improbabile, sarei andata a messa tutte le domeniche». È stato il suo modo di confessare quello che non ha potuto confessare.

Ha compreso perché suo cugino aderì totalmente a quel progetto rivoluzionario e criminale?

Perchè era nato a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, e cresciuto in una famiglia operaia. Conosceva il mondo operaio, i temi dello sfruttamento, la lotta contro i padroni. Leggeva molto, si era formato anche dopo l’esperienza operaia di sua madre, punita per aver scioperato. È stata anche una questione generazionale: si viveva in un clima di violenza continua, da lì a poco avrebbe trionfato sulle loro vite l’eroina, lo scontro con lo Stato era tangibile, forte. Si reiterava una violenza indicibile.

Però, fra vivere i conflitti e commettere omicidi c’è un abisso. Cosa ha ridotto quella distanza?

Forse gli incontri: le nostre vite sono segnate dagli incontri. Walter aveva già una sua formazione, ma l’incontro con Renato Curcio, fra i fondatori delle BR, fu decisivo. Forse, se non avesse incontrato lui non avrebbe ucciso nessuno. Non avrebbe provocato quelle vedove, quegli orfani. Non avrebbe tormentato queste famiglie con quel dolore.

Quel decennio è stato macchiato da tanto sangue innocente. Era una guerra, ma dichiarata asimmetricamente: tante persone sono state uccise per il loro lavoro, per ciò che rappresentavano. È questa la cosa più crudele?

Assolutamente sì. Molte persone hanno pagato con la vita per il semplice fatto di aver scritto degli articoli oppure per aver indossato una divisa. Credo che Walter, Bazzega e Padovani siano stati schiacciati da un meccanismo più grande di loro. La storia, in certi attimi, è una macina che travolge chiunque.

Quella degli anni di piombo, per molti, è una tragedia negata. Da anni leggiamo le cronache dei brigatisti, solo da un decennio le testimonianze dei familiari delle vittime, mentre manca ancora una narrazione tragica, capace di immedesimazione e catarsi. Perché quel tempo rimane così irrisolto?

Perché c’è un enorme buco nero che è il caso Moro. È una cosa assolutamente non risolta ancora oggi: da lì arrivano a cascata tutti gli altri non detti, tutta la nostra difficoltà nel rapportarci con quel periodo. Oggi, raccontare a un quindicenne quella stagione è difficilissimo. Si fa fatica perché l’Italia è stato sempre un Paese in contrapposizione, un Paese diviso da queste contrapposizioni.

Il figlio di Aldo Moro, Giovanni, ha scritto che rimangono dei fantasmi, che non si riescono a prendere le distanze e che c’è quasi una sorta di nostalgia per quel tempo. Pacificare una memoria collettiva è un’utopia?

Come si fa ad avere una memoria condivisa nel momento in cui ci sono così tanti buchi? Come si fa ad accettare che uno Stato democratico non risolva quei nodi? Il caso Moro è un bivio enorme nella comprensione e nel racconto di quel tempo.

Perchè non si sono sciolti quei nodi?

Perché ci sono cose indicibili. Chi ha provato a scoperchiare quel vaso, come Pasolini, è stato ucciso. Non è un caso che l’unico intellettuale italiano ucciso sia proprio Pasolini nel momento in cui scrive quell’articolo passato alla storia come “Io so”. Lui chiama in causa la DC, il PCI. Dice di sapere i nomi, ma di non avere le prove. Si rivolge anche agli uomini di potere dell’opposizione: voi conoscete, perché non parlate? Quelle pagine fanno ancora accapponare la pelle.

In questo libro allontana la parola mostro dalla figura di suo cugino.

I mostri non esistono. Ci fanno sentire comodi, ci fanno pensare che solo gli esseri mostruosi possano commettere certe cose, ci rassicurano che sono oltre la nostra realtà. Chi fa questo mestiere sa che i mostri non esistono: esistono persone che commettono mostruosità.

Walter Alasia non era un mostro, ma per la cronaca un terrorista. Non rinnega questa parola?

È stato anche un terrorista e convivo con questa parola da quel 15 dicembre di quasi 45 anni fa. Ho sentito parlare di Walter come un terrorista per tutta la vita, ma io ho scritto un libro proprio per raccontare e comprendere cosa c’era dietro quella parola. Cosa restava, di lui, oltre quel terrorista.

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