L’Arminuta di Di Pietrantonio è tornata con Borgo Sud: “Una sorella non sostituisce mai il mancato amore di una madre, ma può diventare un’àncora”

by Felice Sblendorio

Di uno scrittore, oltre alle parole, sono importanti i silenzi. E le pause.

Nelle pagine, soprattutto. Ma non solo.

Lo sa bene Donatella Di Pietrantonio, scrittrice fedele alla purezza delle parole e al dolore che custodiscono.

Dopo il successo del suo precedente romanzo, vincitore al Premio Campiello, la sua Arminuta è tornata. Con uno stile autentico e magnetico, questa scrittrice intima e aspra che rifiuta ogni retorica letteraria, con “Borgo Sud” (Einaudi, 164 pagine, 18 euro) racconta due vite condizionate dal disamore: nella vita adulta dell’Arminuta ritorna la sorella Adriana, che irrompe come una tempesta problematizzando il loro passato di figlie di nessuna madre, il richiamo arcaico del sangue, la tragedia sempre dietro l’angolo che travolge la vita di queste due sopravvissute. bonculture ha intervistato Donatella Di Pietrantonio.

In “Borgo Sud” le due sorelle de “L’Arminuta” tornano a incrociarsi. Questa volta lo sguardo non è quello dell’infanzia, ma quello della maturità. Chi sono diventate queste donne che sono una somma di mancanze?

L’Arminuta e Adriana attraversano la vita adulta con modalità diverse, opposte. Adriana è impulsiva, vive senza rete, si getta in tutte le situazioni con quel suo fare spericolato, scapestrato. La sorella è più razionale, controllata, costruisce una carriera basata sugli studi. Queste differenze sono di superficie perché, in fondo, è uguale il vuoto che si portano dentro, quella ferita originaria, quella deprivazione degli affetti primari e dell’amore materno. Diversi, in realtà, sono solamente i tentativi per riempire quel vuoto.

Adriana, che irrompe dopo tanto tempo con un figlio al seguito, è nel destino di sua sorella. È un pericolo del passato che ritorna?

In un certo senso sì, perché Adriana sembra ogni volta voler riportare indietro sua sorella. Per l’Arminuta lei costituisce un pericolo perché, a differenza dei genitori che sono confinati e non attraversano mai quella linea di demarcazione geografica fra il paese e la città, Adriana non conosce confini, si espande. Adriana, per la mia protagonista, è una presenza imbarazzante.

La poetessa Louise Glük, che è stata appena insignita del premio Nobel, ha scritto che «Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria». Queste due donne che fuggono restano sempre intrappolate nell’esercizio della memoria?

Non vorrei dare una visione disperante o trasmettere una sorta di ineluttabilità, ma è quasi sempre vero che per quanto cerchiamo di affrancarci, di emanciparci dai nodi del passato, la memoria ci riporta indietro: a quello che è stato, a quella radice dolorosa che, in qualche modo, determina continuamente il nostro presente e il nostro futuro.

Un topos della sua letteratura è il rapporto con la madre. In questo libro l’Arminuta pensa che chiuderà i conti con la madre nella sua ultima ora, mentre in un suo precedente romanzo “Mia madre è un fiume” raccontava un rapporto materno andato storto sin da subito. Siamo sempre consapevoli di queste storture?

La maternità è un sottotesto che resta, che c’è ancora sul fondo. Secondo me no, da giovani la consapevolezza è sempre molto scarsa. Ci limitiamo a reagire a queste storture con i comportamenti, con il nostro vissuto. Di solito non si è in grado di identificare quella radice dolorosa. Forse non si arriva mai a esaurire completamente quell’elaborazione.

La famiglia, nella sua visione di scrittrice, porta con sé una radice problematica. Il rapporto famigliare, come ha scritto Michela Murgia, è «il posto dove essere sangue del sangue significa essere l’uno la ferita dell’altro»?

Assolutamente sì. Io lo credo, e credo che sia un po’ così per tutti, a meno che non si abbia la fortuna di nascere e crescere in una famiglia estremamente equilibrata – cosa che dopotutto considero anche rischiosa. Per il resto credo che il grande lavoro che facciamo nella vita, questo lavoro di emancipazione e affrancamento, consista nella cura di questa ferita sanguinante. Quello che cerchiamo di fare nella nostra vita è tentare di chiudere quella ferita, facendola diventare una cicatrice che smetta di essere così dolorante, così bruciante.

Queste figlie sono legate da un mancato affetto genitoriale che non le libera mai. È una condanna il tentativo di riconquistare quell’affetto?

Se è venuto a mancare l’amore primario ci sarà sempre un vuoto che ti spingerà a riconquistare e meritare quell’affetto. L’Arminuta ha compreso solo da adulta che l’amore della madre non dipendeva dal suo essere figlia. Tutti gli sforzi per conquistare quell’affetto erano inutili, eppure rimaneva intrappolata – come molti – in una specie di coazione a ripetere, in uno sforzo continuo utile ad attirare su di sé lo sguardo assente della madre.

Arriva a invidiare l’amore di sua madre per il fratello morto. Lei scrive che il ricordo è una forma di recriminazione. Che cosa significa?

Anche nell’età adulta il suo essere figlia continua a tornare alla memoria, continua a pensare a questa madre che, nel momento in cui le viene a mancare, si concentra esclusivamente sul figlio morto. Va a trovarlo al cimitero, trascurando i figli sopravvissuti. Anche questa è una trappola della memoria. È costretta a tornare sempre lì, su questa gelosia del fratello morto che è una continua, silenziosa e non detta recriminazione contro sua madre. È un continuo rimprovero a lei per l’attenzione dedicata all’unico figlio che non ne aveva più bisogno.

L’Arminuta forse ce l’ha fatta nella vita, e nell’ultima pagina del romanzo afferma che, finalmente, sa cosa chiedere, non a chi. È un percorso di autodeterminazione concluso?

In buona parte sì, per quanto sia possibile, perché in fondo non concludiamo che alla fine. L’Arminuta è una persona strutturata, consapevole: si è individuata, conosce le sue ferite, le tiene a bada e ha un grande tesoro che è quello della sorellanza. Il suo tesoro è Adriana che, per quanto sia imprevedibile e pericolosa, è una certezza. Una sorella non sostituisce mai il mancato amore di una madre, ma comunque può diventare un’àncora: in qualche modo una salvezza. (La scrittrice osserva una lunga, ma eloquente pausa). Una piccola salvezza.

In questo romanzo ci sono anche gli uomini. Definiti per eccessi: o troppo come nel caso di Rafael, o troppo poco come nel caso di Piero, il marito dell’Arminuta. Descrive il tradimento di Piero con un sentimento di compassione. È sempre necessario perdersi, tradirsi, per scoprire la propria identità?

È un tema a cui tengo molto. Non è sempre necessario, ma se sei in una fase della vita in cui questa identità non l’hai ancora raggiunta, in cui non ti sei ancora trovato e individuato, se hai contratto un matrimonio con così poche consapevolezze, un matrimonio che è più una collusione e una corrispondenza di bisogni dell’uno con quelli dell’altro, è quasi inevitabile: arriverà sempre un’Adriana pronta a scombussolare ogni equilibrio apparente. Piero tradisce, ma è un tradimento necessario: solo attraverso questa transizione riuscirà a individuare se stesso.

La sua protagonista è diventata un’insegnante e ai suoi alunni vorrebbe dire:«Ragazzi, la lezione comincia adesso. Vi state illudendo. Capiterà un’incidente, la malattia, il terremoto, e i vostri sogni saranno interrotti. Vi perderete». Non è molto distante da quello che ci sta capitando in questo periodo.

Molto probabilmente questa frase non sarebbe mai entrata nel libro se non stessimo vivendo il momento che viviamo. L’Arminuta dona uno sguardo consapevole di come va la vita, ma guarda con una sorta di tenerezza questi studenti ansiosi di laurearsi, di viaggiare, di vivere. Li guarda con compassione perché lei sa che non tutti ce la faranno, che questi sogni saranno in gran parte spezzati, interrotti. Nel momento in cui vorrebbe avvisarli si chiede: ma chi sono io per dirglielo? Lasciamo che vivano tutto questo. Credo che sia un atteggiamento molto amorevole.

Nella sua prosa ogni parola è necessaria e ognuna di loro porta con sé il peso di un dolore. È un processo di sottrazione quello che le consente di restituire l’essenza?

Sì, è un processo che oramai faccio sempre con minor fatica. Sono abituata a scarnificare, a scolpire la frase lasciando le parole essenziali. Sento molto la responsabilità di ogni singola parola. Ci ritorno, continuo a sottrarre in modo che ogni parola emani tutta la sua potenza, tutta la sua essenza. Lo faccio per non confondere parole preziose in un testo ridondante: a volte alcune parole soffocano quelle decisive.

Sbaglio se dico che il suo stile di scrittura non è così distante dal suo stile vita?

No, non sbaglia. Io resto una persona abbastanza timida, con difficoltà nell’espormi. Lo faccio perché mi sembra necessario accompagnare i libri, però mi accosto sempre con un certo timore alle situazioni sociali.

Lei è nata in un piccolo paese dell’Abruzzo e, nonostante il successo mondiale de l’Arminuta con 300mila copie vendute e traduzioni in 27 Paesi, continua a svolgere la doppia professione di dentista pediatrico e scrittrice. Dopo tutto questo affetto ricevuto, oggi cosa direbbe alla bambina che è stata?

Ultimamente mi sto ricordando della bambina che sono stata. Per tutto quello che è avvenuto io mi considero molto fortunata. Ho avuto la fortuna di essere pubblicata, riconosciuta, premiata. Tutto questo oggi mi sento di dedicarlo e restituirlo a quella bambina che andava da sola a scuola, attraversando il bosco con la paura dei temporali o del vento. Grazie alla scuola e alle maestre ho scoperto i libri e la lingua italiana che mi sembrava bellissima essendo madre lingua dialettale. Oggi è come se volessi offrire, dopo decenni, tutto questo affetto a quella bambina spaventata che sono stata.

Ha dichiarato che la sua scrittura nasce da un vuoto doloroso.

Ritorniamo alla mancanza dell’amore materno, simile ma non così estremo come quello vissuto dai miei personaggi: nel mio caso nessun abbandono ma solo la condizione, ugualmente dolorosa, delle madri contadine degli anni ’60. Erano madri fisicamente presenti, ma costrette da un sistema di valori arcaici a faticare nei campi e nelle stalle. Erano presenti con il corpo, ma non erano mai veramente lì con noi. La mia scrittura parte sempre da questo dolore.

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