L’Inganno di Veronica Tomassini è una Milano sonnambula trasvestita da amante

by Giammarco Di Biase

Hai dei pezzi smilzi da completare per il giornale. Tra lavoro, poesia e università non sai mai da dove iniziare. Il tuo amico scrittore Davide Grittani ti consiglia di dare un occhio a L’Inganno di Veronica Tomassini (La Nave di Teseo, 2022). Sei un lettore assuefatto nella pratica di leggere nuovi libri usciti, sempre sul pezzo per anelare a chissà quale premio cannibalico nella tua libreria di fiducia in cui sfogliare icone pop dell’ultima narrativa italiana fitte di linguaggio slang, dogmi della nostra cultura consumistica consigliati da “eventi” Tic Toc e siti con il carrello pieno di tutta la classifica dei primi dieci. Arriva la Tomassini in questo mondo che non vogliamo bene, e in cui abbiamo perso la nostra stima di lettori. Sarà che tutti siamo imprigionati in questo omerico disturbo chiamato FoMo, acronimo inglese che sta per “Fear of missing out” cioè “Paura di rimanere esclusi”. Dovremmo diagnosticarcela sul serio, la conferma è che crediamo ancora in concorsi, premi, ma abbiamo perso la bontà e l’acume per perquisirci e chiederci, ancor prima di diventare scrittori, dove ci siamo persi, in che burrone, da lettori con una ragione.

Dicevo, arriva L’Inganno della Tomassini, e ci sembra di aprire gli occhi. Come quando a ottant’anni (ormai l’anzianità statisticamente si è allungata) puoi iniziare a definirti un vecchio e guardarti indietro con tutta la tua serenità o il tuo terrore, apri gli occhi sui bivi e sulle successive scelte e anche lì, e se apri davvero gli occhi, a te sta decidere cosa guardare con razionalità senza più ingannarti che ti piaccia o no. L’Inganno di Veronica Tomassini è un libro stregato, penso spesso a quest’aggettivo ogni volta che qualificavano e definivano la postura del realismo di Buzzati. Sappiamo che Buzzati non amava paragrafi e sotto paragrafi di specificità, a piè di pagina intendeva restituire non didascalie ma un magnetismo quasi “disinteressato”. Stregato è, L’Inganno di Veronica Tomassini, perché ha un fetish aggressivo per il romanzo d’ambiente, in questo caso nella Milano contemporanea che però, oltre a essere specchio di efferatezze da metropolitana, non solo preferisce una letargia più anacronistica nei tram ma ama incondizionatamente l’arte figurativa meta-letteraria della città lombarda, capitale del lusso, della moda, latrina della contemporaneità che tutto ingrigisce e che mai scuote.

La protagonista dell’opera, detto molto più semplicemente, è una donna fuggita dalla Sicilia che tenta di inserirsi in un nuovo immaginario. Sì, perché capita molto spesso a chi legge di voler conoscere i luoghi insiti nel cuore delle proprie letture, non solo per sventare saccentemente stereotipi della narrativa instagrammabile italiana che consegna a milioni di destinatari continue cartoline della Capitale, ma per “presenziare” all’interno della storia letta con nostalgia, trovare un posto e diventare da lettore un eterno vivente protagonista di quegli scenari.

Il primo Inganno quindi è questo, essere Milano, sentirsi Milano, in quei posti che hanno sfidato ogni scrittore di sorta, tanto è impossibile come città, tanto è invivibile nella resa, tanto è dolorosa nel restare, tanto è assurdamente parassitaria eppure eccelsa. Perché Milano è una città da abbandonare, è un Addio che corona per sempre l’esperienza di esserci stati, e non viverci più. Sorta di Capitale letteraria di quella letteratura baroccheggiante e fissamente decadentista dimenticata dal Novecento italiano, Milano custodiva grandi nomi (scrittori che rifuggono da qualsiasi desinenza, mai racchiusisi in nessun genere o postulato, un pastiche smanioso, una mascherade anti-borghese, letteratura di lotta svogliatamente feroce ma tenera, disincantata eppure magica).

Non esistono i delitti di Scerbanenco senza Milano. Non esiste il giallo, gli stereotipi del noir, la burocrazia di ispettori e le regole poliziottesche senza vie lombarde così idealizzate. Milano è un sintomo, un folklore cosmopolita, una riscaldata antropologia che sa di minestra. Ma soprattutto Milano è un’altra cosa, non meno importante dell’immaginario per la sua protagonista: la città è un duplice Inganno, seducente è l’amante parodiata e mai risparmiata da una scrittrice viandante, transumante letteraria, l’abbordaggio stressante e tedioso di una donna che si porta il Male oscuro di Giuseppe Berto dentro il ventre e il cuore, sia quel tipo di letteratura che quell’esatta cognizione del dolore proveniente da un altro grande scrittore milanese, Gadda. Eppure L’Inganno di Veronica Tomassini si porta tante cose dentro, tanti spiritelli che nel sogno danzano sul palcoscenico del soffitto nero, la Ortese, De Marchi e il proletariato contadino lombardo, l’Ottocento sulfureo delle caserme, anche tanto, tantissimo cinema tra Kusturica, i colori bianchi e liturgici di Kieslowski, le stazioni del cinema di Bela Tarr e l’epilessia narrativa e ombelicale di Laszlo Krasznahorkai di Satantango.

L’Inganno di Veronica Tomassini è un libro esausto, magnifico nella sua ripetizione, quasi lisergico come un atto di dolore o un santino nel portafogli di pelle quotidianamente vilipeso, un rosario sfinente in mani sudate. Pungentemente egotico come un personaggio di un’epopea intimista di Bertolucci, iper-narcisista quando si sofferma sulle vetrine degli altri, un’opera di ferite incipienti e Cluedo di parole difficili, esatte fino alla violenza del vocabolario e impenetrabili come sono le psicosi antoniane della sua narratrice. E’ soprattutto una sineddoche di profondità, un’acquisizione di un immaginario per una scrittrice che è alla sua nuova opera, tormentata nel ricostruire il suo cifrario di lettrice di romanzi milanesi.

Ma la grandezza della Tomassini è di non riuscire mai ad omologarsi irresponsabilmente agli immaginari decantati. Non aderisce mai, pur volendo, perché la sua è una personalità da outsider, e se i suoi romanzi avranno un posto nelle classifiche sarà solo dopo la tanta sofferenza di un romanzo come questo, che per oggi resterà in estrema solitudine nel panorama italiano, e che tra tanti anni o nel futuro sarà celebrato ipocritamente dopo tanta dimenticanza: la Tomassini comunque resta lontana da qualsiasi lode che possa definirsi spietatamente vintage.

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