Milkman di Anna Burns: una ragazza legge e cammina in una comunità che non riesce a liberarsi dalla violenza

by Francesco Berlingieri

Anna Burns
Milkman
(Keller, 451 pagine, 19,50 euro)

C’è una ragazza di diciotto anni che cammina dove le strade non hanno nome. E legge. Cammina leggendo Ivanohe. Un’auto le si accosta. Un uomo, il doppio dei sui anni, le chiede se vuole un passaggio. Conosce tutta la sua famiglia, o gran parte di essa. È il Lattaio. La ragazza senza nome rifiuta. Per via del fatto che sarebbe sconveniente. Un po’ perché ha una quasi-relazione con un quasi-fidanzato. E un po’ (di più) perché il Lattaio è un rinnegatore dello Stato. In una comunità pettegola che ne fa degli eroi ma, al contempo, li teme. O, comunque, preferisce starne alla larga. Fatto sta che basta questo primo approccio per renderla, agli occhi della sua zona supersorvegliata, la nuova “preda” di quell’uomo brutale e sposato. Con tutto ciò che, in termini di terrore e lusinghe forzate, ne consegue.

Ora, la città senza nome è Belfast, negli anni più densi dei Troubles.
I rinnegatori dello Stato sono i militanti dell’IRA. I difensori dello Stato i paramilitari unionisti. Il Paese dell’oltre acqua è l’Inghilterra. Quello di oltre il confine è il Libero Stato d’Irlanda. E la pletora di mamme, sorelle, fratelli, vicine e cognati non hanno un nome di battesimo perché, nell’economia della comunicazione di Milkman, sarebbero del tutto superflui.
Deve bastare, al lettore, sapere che c’è questo posto dove la guerra è nei gesti, c’è questa ragazza che è stata scelta dalla bellica presunzione maschile, c’è una comunità che non riesce a liberarsi dalla violenza e che annulla gli individui che sfuggono alle classificazioni: come chi scopre un deposito di armi in cortile e se ne disfa, chi avvelena i cocktail nei pub, chi è ossessionato dal conflitto Usa-Urss e chi, per l’appunto, cammina per strada leggendo. Come se il mondo fuori non esistesse.

Anna Burns, classe 1962, ci ha vinto un premio – il The Man Book Prize – col suo Milkman.
Ed io, signor nessuno, non posso che ammettere d’aver sentito, percepito, provato, la grandezza del testo e del sottotesto e del sotteso per tutte le quattrocentocinquanta pagine di cui è composto. Ma anche di aver fatto una fatica mostruosa a concluderlo. Perché – checché ne dica Pennac – io sono di quelli che i libri, una volta iniziati, li deve portare a termine. Come fosse un lavoro.

Ma, soprattutto, perché credo di avere un problema con le profondità psicologiche dei libri al femminile. La Burns – per come è rimasta impressa nella mia psiche – è una donna che a un certo punto ha preso la parola ed ha cominciato a parlare, parlare, parlare, variando sul tema, svisando, scendendo e salendo, alludendo e sancendo, anche quando io facevo fatica a seguirla. Perché, per quanto possa immedesimarmi, per quanto possa immaginare cosa debba essere l’oppressione maschile, patriarcale, comunitaria in una comunità fallocentrica, nei confronti di una ragazza di diciotto anni nel bel mezzo di una guerra civile, non sono una donna. E certe sottigliezze non le colgo. Non posso coglierle. Certe situazioni, senza girarci troppo intorno, sono le mie solo per estensione di sensibilità. Perché, per il resto – ma che resti tra noi – l’avrei pensata esattamente come quelli dell’IRA su una ragazzina che cammina leggendo Ivanohe. Mentre attorno c’è l’inferno.

Probabilmente perché sono un uomo, sono elementare, sono una di quelle costruzioni da 0-3 anni, coi mattoni rossi e blu giganteschi, che come li incastri va sempre bene. Oppure, ancor più probabilmente, perché ho compreso tanto tempo fa che evitare di fare i conti col mondo esterno non significa annullarlo. Nell’Irlanda del Nord della lettrice senza nome, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si è combattuta l’ultima guerra anticoloniale d’Europa. Una guerra intestina, clandestina, crudele come poche, tra comunità confinanti, tra dirimpettai, con dei codici di comportamento rigidi e degli eserciti in passamontagna e kalashnikov pronti a tendersi agguati. Di mio posso anche sforzarmi di capire la retorica pacifista della ragazza che s’affaccia al mondo e pensa di ripudiarlo con le proprie pratiche: è tipico dei giovani pensare di far terra bruciata di quel che è esistito fino a quel momento. Ma poi, francamente, basta. Poi stufa. E fortunatamente, si cresce. E quell’aura di fastidioso anticonformismo cede il posto al duro realismo di chi s’adatta e si trova un bel posto dietro una lurida barricata. Deo Gratias.

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