“Non è utile a nessuno un carcere che sia solo una vendetta pubblica”. Intervista a Marcello Bortolato, magistrato e presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

by Felice Sblendorio

Non ha risparmiato nulla la pandemia: nemmeno il carcere. Secondo l’ultimo bollettino fornito da Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, l’estensione del contagio in carcere procede a ritmo sostenuto con più di 400 positivi tra i detenuti e un valore più alto tra il personale penitenziario. In una settimana il numero dei positivi in cella è più che raddoppiato.

A Milano (a San Vittore e Bollate) i contagi aumentano con rapidità, mentre ad Alessandria il virus ha colpito il 14% della popolazione detenuta, provocando un decesso. Così, anche il covid-19 è entrato in una realtà dimenticata e marginale nel racconto pubblico, inasprendo problematiche antiche e durature.

Ma cos’è diventato, oggi, il carcere? In Italia, secondo il magistrato Marcello Bortolato e il giornalista del Corriere della Sera Edoardo Vigna, si è trasformato in una “Vendetta Pubblica” (Editori Laterza, 160 pagine, 14 euro). In un saggio urgente, dallo stile puramente divulgativo e accessibile, gli autori tentano con successo di scardinare false credenze e miti comuni su un tema così delicato e complesso come il penitenziario. Se, come scrivono gli autori, «il carcere è un po’ come la temperatura e il tempo meteorologico: la realtà è diversa dal percepito», il lavoro di Bortolato e Vigna ha il pregio di mostrarci una realtà aderente ai numeri e ai dati. Non c’è nessuna interpretazione, ma un lavoro minuzioso che tenta di contestualizzare e distinguere, analizzare e smontare il furore emotivo del populismo giudiziario. Mettendo al centro la dignità dell’uomo, come sancito dalla Costituzione, gli autori donano al lettore un manifesto civile per pensare e immaginare meglio l’istituzione totale del carcere. bonculture ha intervistato Marcello Bortolato, magistrato e presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

Dottor Bortolato, cominciamo dall’origine: a che cosa serve la pena?

Oggi, in Italia, la pena non può che essere ricondotta alla funzione indicata dall’articolo 27 della Costituzione: ovvero un’utilità rieducativa intesa in un disegno più grande di reinserimento sociale. Classicamente, nella storia, la pena ha avuto diverse funzioni: retributiva, special-preventiva, di prevenzione generale e di mera funzione custodiale. La nostra Carta, pur non prendendo posizione sulle funzioni storiche della pena, impone che, qualunque essa sia, debba tendere al reinserimento sociale. Questo è il punto di partenza.

Per la nostra Costituzione nessuno è irrecuperabile.

Esatto. Nemmeno la pena dell’ergastolo – che tendenzialmente è in contraddizione con il principio rieducativo – può essere esclusa da una finalità di reinserimento sociale.

Quando si parla di carcere, da Voltaire in poi, si usa spesso la metafora dello specchio: di un Paese o del suo grado di civiltà. L’immagine delle carceri italiane cosa riflette?

Un Paese variegato, con una popolazione di varia estrazione sociale e multietnica. Il carcere italiano ha un tasso di soggetti stranieri elevato con una percentuale del 40/45%. La nostra, poi, è una società complessa che vede forme di disagio più o meno vaste che vanno dalla marginalità sociale alla tossico-alcoldipendenza. Problemi che, come sottolineava Alessandro Margara, portano a una detenzione sociale per tutta una serie di soggetti che provengono dalle fasce più disagiate della società. Con delle persone analfabete, che possiedono un titolo di studio perlopiù limitato alla licenza elementare, bisognerebbe implementare l’opera di trattamento attraverso la cultura, il teatro e la scuola. Questo è un primo grande problema, perchè solamente una piccolissima parte di questa popolazione carceraria può accedere ai trattamenti e allo strumento principale per l’opera riabilitativa che è il lavoro.

Il carcere in Italia è una vendetta pubblica?

Se è vero che il carcere nasce come una forma di monopolio della vendetta, limitando quella privata delle vittime nei confronti del reo, nel corso del tempo si è trasformato in una vendetta di Stato. Ma la Costituzione, nonostante i desideri di molta parte dell’opinione pubblica, ci obbliga a immaginare una funzione che non si riduca a una semplice catena di sofferenze e dolore. Esprimere una detenzione che sia solamente una mera privazione dei diritti fondamentali non consente al condannato di uscire dal carcere, come tutti noi vorremmo, come una persona diversa da quella che è precedentemente entrata. Non è utile a nessuno un carcere che sia solo una vendetta pubblica. È utile a tutti, invece, un carcere che consenta al condannato di diventare una persona diversa, non cadendo nella trappola della recidiva; quella possibilità sempre dietro l’angolo di reiterare il reato.

Un carcere del genere è una condanna a delinquere ancora?

Sicuramente. Io sono convinto, anche sulla base delle mie esperienze, che se al detenuto si tolgono i diritti fondamentali non lo si riconosce nella sua dignità di persona. L’uomo va sempre trattato e riconosciuto come tale, coltivando la ragionevole aspettativa che, anche il reo, quando uscirà dal carcere, potrà a sua volta considerare gli altri come persone degne, e non commettere più reati.

Il populismo giudiziario oramai ha alimentato una sete di vendetta. Non crede che nel dibattito pubblico si pensi al carcere più in un’antica ottica retributiva che rieducativa?

La funzione retributiva, che ha in sé una sua legittimità, soddisfa una reazione emotiva e immediata alla commissione del reato. Credo che il carcere sia un argine alle nostre paure, quando invece un tema del genere necessita di un approccio serio e razionale. La retribuzione, sempre più vista come un modo per privare la libertà e infliggere sofferenza al reo, ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità e ragionevolezza. La retribuzione del male ha senso solo se è innanzitutto proporzionata al reato commesso, e non solo a ciò che ‘vuole la gente’.

Il paradigma positivista ha ribaltato la figura predestinata al crimine tipica della scuola classica. La funzione rieducativa supplisce alcune mancanze o deficit della società?

Il modello rieducativo ha i suoi limiti, ma è il fondamento culturale dell’ordinamento penitenziario. Siccome i reati sono causati perlopiù da una deprivazione sociale, bisogna agire su quelle cause pe poter ragionevolmente aspettarsi che la recidiva non si verifichi più.

Spesso, però, non basta. Quanto è sbagliato affidare solamente al diritto penale la risoluzione dei problemi sociali?

Sicuramente è sbagliato. Pensiamo all’annoso problema della droga. Nonostante lo strumento punitivo non sia usato solamente nel nostro Paese, il fenomeno è sempre più grave. Molto spesso lo strumento penale è totalmente insufficiente per combattere guerre sociali. La nostra risposta, che è la più semplice, è un segnale emotivamente forte per una comunità spaventata. Ma un vero Stato democratico, che ha realmente a cuore il benessere della sua cittadinanza, dovrebbe cominciare a pensare a forme alternative per rispondere a questi disagi.

L’Italia è culturalmente pronta ad accoglierle?

La pena alternativa alla prigione deve necessariamente maturare ed essere accolta in un tessuto sociale pronto. Il carcere, per la società, è la risposta più semplice: i colpevoli sono lontani dal nostro sguardo e quel problema non è più importante per il destino comune di tutti noi. Le pene alternative, invece, necessitano di accoglienza e della possibilità di un confronto – regolato ovviamente da prescrizioni effettive – fra la persona che ha appena commesso il reato e la comunità generale.

Uno sforzo ulteriore è il percorso della giustizia riparativa. Ricucire il rapporto fra vittima e colpevole significa pacificare un trauma che, molto spesso, lacera le comunità?

Il libro si conclude con un capitolo che parla della giustizia riparativa come passaggio ulteriore rispetto al modello rieducativo. È un paradigma di giustizia alternativa a quello classico per il quale si ipotizza che la risposta al reato non debba solamente essere detentiva. Il reato non può essere considerato solamente come una conseguenza della violazione di una norma astratta, ma deve essere concepito come una ferita, una lacerazione sociale. E come si può porre rimedio a questa lacerazione? I processi di mediazione tra vittima e colpevole ad esempio, oppure le opere di riconciliazione sociale fatte in Sudafrica dopo l’apartheid, in cui lo Stato rinuncia in tutto o in parte alla sua pretesa punitiva purché il condannato sia sollecitato, su un presupposto di verità, a realizzare forme di riparazione che possono spaziare dalle scuse formali al risarcimento del danno, oppure a forme di lavoro gratuito a favore della collettività. Il colpevole doveva ammettere il proprio reato e anche confessarne altri non scoperti, e si trattava di reati comuni ancorché motivati da odio razziale e non solo ‘politici’, e ciò apriva la strada alla riconciliazione pubblica e privata. Un grande esempio: quando uscì dal carcere Mandela disse “pace” e non “guerra”. Questo, ovviamente, non è un paradigma applicabile a tutti i tipi di reato e a tutti i livelli di pericolosità, ma sicuramente è uno sguardo possibile nel tentativo di superare la funzione rieducativa attualmente in grande sofferenza.

Una riparazione che non necessita del perdono, però.

Il perdono non ha nulla a che fare con la giustizia riparativa. È un atto spontaneo, assolutamente libero, che non è imposto né richiesto da nessuno. Se il processo di mediazione porta a un perdono da parte della vittima è un ulteriore passo.

In molti, da tempo, sono contrari alla dimensione totalizzante del carcere. Lei cosa ne pensa?

Benché sia legittima l’idea di eliminare il carcere in toto, considerandola una misura contraria ai principi democratici e ai valori di rispetto della dignità umana, nel libro volontariamente non tocchiamo il tema dell’abolizionismo. Partiamo dal presupposto che il carcere così com’è non va bene: dunque deve essere assolutamente rinnovato. Le leggi per riformarlo ci sono. Noi abbiamo uno dei migliori ordinamenti penitenziari al mondo se solo venisse attuato in ogni sua parte. Una possibile riforma crediamo sia urgente.

Un intellettuale come Adriano Sofri, che ha vissuto il carcere dopo una condanna definitiva, ha scritto che «Una lingua che conserva il futuro anteriore non merita l’infamia dell’ergastolo». Se non c’è né futuro e né rieducazione, l’ergastolo ostativo a che cosa serve?

L’ergastolo ostativo è in netta contrapposizione al principio rieducativo, tanto da spingere la Corte Costituzionale a dichiararlo in parte illegittimo con la sentenza 253 del 2019. Nessuna persona è irrecuperabile, e forme destinate a finire con la morte del detenuto sono intrinsecamente in contrapposizione con l’articolo 27 della nostra Costituzione. Io, personalmente, auspico che la Corte possa dire qualcosa di più non solo sui permessi premio, ma anche sulle altre misure alternative connesse all’ergastolo ostativo. Il tema è complesso e si lega chiaramente al profilo della collaborazione. Lo Stato, in un’ottica utilitaristica di politica criminale, molto spesso chiede al condannato di svelare aspetti della criminalità ancora poco noti in cambio di benefici. Il condannato vive così una scelta drammatica che contrappone la sua libertà a quella degli altri. Dal punto di vista morale la pretesa della collaborazione con la giustizia è qualcosa che stride con i principi classici dell’etica e della libertà. Ciò non toglie che lo strumento della collaborazione, in un periodo emergenziale come quello degli anni ’90, abbia consentito di portare a casa risultati importanti in tema di lotta alla mafia. Il tutto, però, deve essere ricondotto in termini più coerenti con la Costituzione. Una pena senza speranza, come ha scritto più volte Papa Francesco, non può che essere parificata a una pena capitale.

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