“Non sono destinata alla vita, così scrivo”, sono Teresa Ciabatti

by Felice Sblendorio

Teresa Ciabatti mi risponde alle 7.06: “Quando vuoi, dimmi tu”. Sono più tranquillo. Non c’è nessuna traccia delle nevrosi di Teresa de “La più amata”: la scrittrice è gentile. A letto presto, poi sveglia rigida che quasi sfida l’alba. Qualche ora dopo ci sentiamo ed è un gradevolissimo fiume in piena. In lei c’è una polarità attraente: la più amata o la più odiata. Aut Aut. Ride, ride, ride.

Immaginate questa intervista con una risata passionale. Il suo ultimo libro, “Matrigna” (Solferino, pp. 205, € 16,50), che sarà presentato oggi a Foggia (Ubik) e domani a Lucera (Kublai), parla di una perdita, di una misteriosa scomparsa di un bambino di sei anni che la sorella, Noemi, aveva il compito di custodire.

Prima di “Matrigna”, c’è stata “La più amata”. Come si vivono e come si scrivono cose nuove dopo un romanzo come quello?

Non è facile. “Matrigna” è la conseguenza del precedente libro perché c’è un io narrante che è il contrario di quello de “La più amata”: all’invadenza e alla mitomania di quella voce rispondo con Noemi, una protagonista sullo sfondo, che desidera non essere notata. La storia e la forma, quindi, sono la conseguenza di tanta esposizione per il libro precedente che, in qualche modo, ho patito. Non ero preparata. Questo è un romanzo meno sguaiato, nonostante a me piaccia la forma scorretta nel racconto.

Noemi è una protagonista in ombra, “entrata per sbaglio nell’inquadratura”. Quanto c’è della donna Teresa Ciabatti in questa condizione marginale?

Direi tanto. Noemi, per me, corrisponde al ruolo dello scrittore: lo scrittore è questo, lo scrittore è quello che, anche da bambino, non è mai stato al centro, non è mai stato il vero protagonista di qualcosa. È una specie di testimone, una persona marginale che proprio grazie a questa condizione sviluppa uno sguardo diverso. Ovviamente è un pensiero mio, ma io non credo che chi abbia vissuto tanto riesca ad allenare il tempo dell’osservazione, che per natura deve essere laterale, lento.

Non la morte di Andrea, ma la scomparsa: perché ha scelto di indagare il tema della scomparsa che è una virgola e non la morte che è un punto?

Nel mio immaginario la scomparsa c’è sempre stata. Da ragazzina ho sognato di scomparire e ho cercato di capire cosa sarebbe successo al mio ritorno. Inoltre, la mia generazione è stata puntellata dai sequestri, uno su tutti quello di Emanuela Orlandi, che non è mai tornata. Il non ritorno di Emanuela ha segnato la presa di coscienza di un’intera generazione di bambini. Il mio immaginario si è sempre ricollegato al gioco e alla fantasia mitomane che diventa tragedia. Per questo l’ho raccontato.

Noemi sembra sia diventata, dopo la scomparsa di suo fratello, madre e figlia di matrigna. È così?

Il libro è pieno di madri e matrigne. Quello che mi interessa come scrittrice è raccontare una complessità e mai una contrapposizione. I ruoli si invertono di continuo, anche quello di madre e figlia: in alcuni momenti Noemi è madre quando Andrea scompare, il suo diventa il lutto di una madre. Poi è cattiva madre di questo fratello e, infine, matrigna di se stessa. Nessuno riesce a ricoprire degnamente un solo ruolo.

I giorni felici”, “La più amata”, “Matrigna”: nei suoi libri c’è sempre la famiglia in primo piano. Cos’è per Teresa Ciabatti: condanna o salvezza?

È tutto, ma io davvero non so cosa sia una famiglia. Come scrittrice, forse, la racconterò per sempre perché è un grandissimo mistero affascinante. La famiglia non è qualcosa di stabile, non è la retorica del riparo, o non è solo quello. Cambia forma ogni giorno: può essere un riparo e una minaccia; è un microcosmo dove succede di tutto, dove si sperimenta per la prima volta il potere, le gerarchie.

C’è sempre un membro che influenza il clima di tutta la famiglia…

Esatto. C’è sempre qualcuno che ci condiziona. Anche rispetto al sapere, all’interno di una famiglia c’è chi sa di più e chi di meno, ci sono tanti misteri e in base a questo viene distribuito il potere. La famiglia è la prima realtà dove conosciamo per la prima volta la complessità delle cose.

La sua scrittura quasi mai fornisce risposte, ma ossessivamente – come i bambini – interroga i lettori: ha capito, però, come si sopravvive all’assenza e al senso di colpa?

Non lo so. Noi nella vita attribuiamo molto spesso a quei ruoli originari, madre e padre, molti aspetti delle persone che incontriamo. Non significa ricercare il padre o la madre, oppure dare le caratteristiche di paternità o maternità ad altre persone. L’assenza diventa un trauma che condiziona anche i nostri atteggiamenti che possono diventare ossessivi o patologici, oppure salvifici. Forse si sopravvive solo grazie alle ossessioni personali.

Walter Siti in “Troppi Paradisi” dice che non tutti riescono a pensare di poter vivere all’altezza dei propri incubi. È grazie alla scrittura che è riuscita a convivere con i suoi?

Per me è stata un po’ una salvezza, io non so che persona sarei stata senza la possibilità, che per me è la scrittura, di canalizzare gli incubi e le pulsioni negative in un qualcosa. Io nella scrittura, sulla pagina, sono una persona cattiva, di basso livello, odiosa, sgradevolissima. Io scarico tutto nella scrittura. Rappresentarmi così nella scrittura, che in parte rispecchia quell’ombra che tutti abbiamo, forse nella vita rafforza la mia parte gentile e mite, lontana da quella parte agitata che ho scaricato già. Non so, sarà mia figlia fra vent’anni a dirmelo.

Questo è il suo primo libro scritto da madre. Quando, però, ha capito di essere diventata una scrittrice, se l’ha capito?

Difficile. L’inizio di tutto non è stato l’amore per la scrittura, il saper scrivere bene. Non cerco questo negli scrittori, mi interessano poco quelli che sanno scrivere bene, alla fine scrivere è un fatto di mestiere, esercizio. Quello che io ricerco nei miei scrittori è l’immaginario, la poetica, quella cosa detta fuori dall’ordinario. Per me nasce prima l’ossessione e l’immaginario, gli incubi e le paure e poi lo strumento della scrittura che ti permette di dare forma a queste sensazioni.

C’è sempre l’atto di trasfigurazione nei suoi libri. Non è forse questa la prova di una grande scrittrice: riuscire a liberarsi senza paura?

Per me è l’importante è proprio questo e sono sempre alla ricerca di una scrittura che possa testimoniare questa urgenza. Non bisogna procedere per imitazioni. A me spaventa molto quando si dice “è nata la nuova Elsa Morante”: uno scrittore deve testimoniare il proprio tempo, la propria irrequietezza.

Fra i due libri credo sia cambiato il modo con cui affronta l’ossessione: nel primo è la lingua a contenere i fantasmi, in questo sono i fatti. Un riparo o un passo di maturità?

Un riparo. Ne “La più Amata” parlava una prigioniera ferma all’infanzia. C’era l’urgenza disperata, un flusso bulimico di verità. In “Matrigna” è tutto sospeso, il dolore è diluito.

Dopo lo Strega, la Ciabatti è diventata un personaggio: pazza, cattiva, antipatica. Nessuno ha capito che c’era molto di finto?

È una tema complesso. Quell’ambiguità l’ho creata io, ma in alcuni punti sono stata molto male. Non era utile dimostrare nulla. Tendevo a dire io sono buona, ma…

Lei alimenta la curiosità: una volta ha detto che ha rinchiuso in una buca una sua amica e che ha fatto dire a scuola che era morta. Pazza no, sopra le righe direi di sì.

Questo dipende da un discorso di censura: non censuro mai me stessa. Il mio senso del pudore è molto basso, quindi non tendo a nascondere la mia parte di ombra, di stupidità. La mia voce narrante non è solamente un essere schifoso, ma anche un puro idiota. Io non mi accresco nella proiezione di me come una bellissima persona, cerco di rimanere molto vicina ai miei limiti.

Lei non si è mai risparmiata: una delle poche a dichiarare di vedere la tv e di ammirare Lele Mora. Si difenda.

Secondo me non esiste cultura alta o bassa, bisogna avere la capacità e la forza di testimoniare il proprio tempo e guardarsi attorno. Non possiamo solo leggere Dostoevskij, dobbiamo leggerlo e contemporaneamente guardare la tv. Anche per capire cosa non è più raccontabile, cosa è diventato luogo comune. Molto spesso gli intellettuali si rinchiudono nei ghetti e non si rendono conto che narrano delle storie che sono state già raccontate in una puntata di “Uomini e Donne” della De Filippi. Capisce?

Più o meno. Ma Lele Mora perché?

A me interessa l’immaginario che portano, ma anche la capacità di testimoniare il nostro tempo e raccontare il presente. Quello che a me interessa è l’angolazione: di lui, ad esempio, non mi interessa il tema olgettine o Corona, mi interessa il Lele Mora ragazzino che ricorda quando in colonia andava al mare e passava un signore con un leoncino del circo e tutti i bambini si fotografavano a pagamento con lui e il leoncino e Mora, che non aveva i soldi, non ha mai potuto fare questa benedetta foto. Per tutta la vita il suo rimpianto è stato il leoncino e, in qualche modo, ha cercato di trovare e gestire i suoi artisti come quel leoncino: trofei da esporre accanto a sé. 

Meravigliosa come storia.

Ha visto? Bisogna esercitare lo sguardo sugli altri e sui personaggi molto raccontati trovare un nuovo punto di vista.

Cambiamo tema. Come convive con le critiche?

Non leggo nulla: né l’odio, né la celebrazione. Non rischio, è una protezione. Una cosa che non faccio mai, nel dubbio, è cercare il mio nome su Google. Anche le mie foto mi fanno paura. È una mia forma di sopravvivenza.

È una poco agitata nella vita di tutti i giorni?

Mi addormento con “Un posto al sole”, non esco quasi mai. Questa è una cosa patologica che è cominciata da ragazzina e poi si è consolidata nella mia vita. Io sono molto felice quando sono a casa.

Lei continua a sorprendermi. A proposito: è vero che non venne nessuno al suo diciottesimo?

Sì, vero.

Un trauma?

Io ricordo che feci questa festa a Roma. Tutti mi consideravano una sfigata e per stare al passo con gli altri costrinsi mio padre a fare questa festa gigante. Invitai cento persone, non venne nessuno.

Una cosa da poco, insomma. Come si è ripresa?

Sono sempre stata dimenticata nei posti, dimenticata da un ragazzino che non corrispondeva una mia cotta, abbandonata perché non si ricordavano che c’ero anch’io. Tutto questo mi ha fatto diventare una scrittrice, o comunque una destinata al racconto: perché di certo una così, una così come me, non era destinata alla vita.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.