“Occasioni mancate” di Agostino Pelullo, la ricostruzione post terremoto che ha divelto l’anima della comunità

by Antonella Soccio

È necessario che le nuove generazioni aggrediscano i nodi irrisolti di uno sviluppo distorto che tiene il nostro Sud e tutto l’Appennino, “dall’Alpi alle Piramidi” senza lavoro per i giovani, senza servizi vitali essenziali, senza speranza in un futuro migliore, a dispetto di enormi potenzialità, che anche la pandemia ha messo in risalto, e con una posizione strategica nel Mediterraneo che la miopia delle classi dirigenti non ha saputo e ancora non sa (anche con il PNRR) trasformare in opportunità per il Paese intero e per tutti i Sud del mondo.

È opera ardua? Sicuro! Ma bisogna chiedersi, con Rossana Rossanda, «…se il momento non è venuto di alzare la testa dai flutti: rimpiangere meno, imprecare meno, e alla zampate dei grandi processi distruttori di ideologie, rispondere con il rischio, la sfida delle grandi idee. Per le quali vale la pena di perdere il sonno».

Prima del terremoto dell’Irpinia c’era stato quello del Belice (1967) e quello del Friuli (1976) per restare a quelli più significativi del secolo passato. E poi ci sarebbero stati quelli dell’Umbria e Marche del Molise e dell’Abruzzo. E, date le caratteristiche geologiche dell’Italia, altri sono da aspettarsi se la scienza ha un qualche valore. Eppure, ogni volta che si verifica questa catastrofe è come se fosse la prima: la capacità di fare tesoro delle esperienze vissute è prossima allo zero.

Cosa può insegnare la ricostruzione di Bisaccia a seguito del terremoto dell’Irpinia e la delocalizzazione del centro storico in un paese di nuova fondazione all’Osso d’Italia e al Sud che si spopola e perde vita?

Agostino Pelullo, cosmopolita docente di lingue e politico irpino di lungo corso, parte dal caso della sua Bisaccia per raccontare un modo di essere delle classi dirigenti meridionali, fedelissime clientes del “partito trasversale della spesa pubblica”.

Si chiama “Occasioni mancate. Racconto della ricostruzione che distrugge una comunità e altre storie”, con prefazione del poeta e paesologo Franco Arminio, il suo resoconto puntuale e documentato dell’immensa spesa che si è riversata sull’Irpinia democristiana e demitiana dopo il 23 novembre del 1980.

Una spesa organizzata e politicizzata con tanto di imprese di riferimento del Nord, che ha sottratto l’anima del vecchio paese e ha trasferito gli abitanti in un’area priva di contesto comunitario e di memoria urbana, affidandosi ad una architettura sperimentale e concettuale, quella di Aldo Loris Rossi, che oggi è diventata un claustrofobico e depressivo non luogo concentrico.

Agostino Pelullo

Per i 42 anni dal terremoto in Irpinia, il libro di Agostino Pelullo sarà presentato ad Avellino con la Cgil provinciale. Il testo ha una sua leggibilità profonda. Le vicende bisaccesi possono far riflettere oltre i confini del campanili. Tanto che l’autore ha anche tracciato un decalogo delle cose da fare e non fare al prossimo terremoto che sconvolgerà le aree interne.

Noi di bonculture l’abbiamo intervistato.

Agostino, nel tuo libro addebiti al nuovo paese (il Piano regolatore) i motivi dello spopolamento di Bisaccia. Eppure tutto l’Appennino vive la stessa condizione pur senza terremoto e ricostruzione. Che te ne sembra?

È vero, ma senza la ricostruzione, che Ada Becchi chiamava distruzione, lo spopolamento sarebbe stato più attenuato, a Bisaccia si continua a vivere nei due paesi la popolazione diminuisce perché il trend è negativo, i giovani se ne vanno, però sarebbe stato un paese unito. La piazza è spopolata, la mattina non c’è un’anima nel centro storico. Non c’è più quel clima che pulsava di storia, il rammarico maggiore arriva da quello che è stato. Se tutte quelle risorse, 300 miliardi di vecchie lire fossero state usate per creare meccanismi virtuosi probabilmente oggi racconteremmo altro.

Tu racconti di 3 grandi imprese, due del Nord e la Mucafer di Manfredonia, che si sono spartite la torta dei soldi per il post terremoto.

Sì, hanno fatto un pessimo lavoro sulla qualità, non sono riuscite a dare una speranza al paese. A favorire le imprese locali, non esiste oggi una cooperativa di muratori, di artigiani, è scomparsa la lavorazione della pietra, quei denari potevano servire per rimettere in circolo l’economia, è chiaro che il Sud aveva bisogno di una grande stagione di investimenti.

Perché tutto questo allora non emergeva? C’era una bulimia della spesa per la spesa? Perché c’è la narrazione del Sud assistenziale, se poi chi fa affari, dalla ricostruzioni ai rifiuti, sono imprese colluse del Nord?

Perché non sempre le classi dirigenti se ne accorgono, pochi comprendono i meccanismi che ci sono stati. Il caso di Bisaccia che analizzo nei dettagli dimostra che la stampa non è sempre attenta, tutti i giornalisti che venivano ad intervistarci, da Samarcanda ad Avvenire in un mare di parole cercavano scoop oppure il caso straziante. Ci chiedevano: ma il senatore si è arricchito? Non scavavano nella realtà, nei dettagli di quelle imprese, che dimostrano che ovunque c’era spesa c’era anche il Nord a beneficiarne. Era un sistema rodato, c’erano delle convenienze.

Nel libro non citi mai Ciriaco De Mita né nomini col suo nome Salverino De Vito, sindaco e Ministro in quegli anni. Non fai i nomi del potere Dc. Perché? Sono ancora un tabù?

Mi faceva un po’ senso citarli, veramente ho odiato queste persone, il danno che hanno fatto a queste comunità è inestimabile. Abbiamo avversato i loro esecutori. Tutto il centro storico era diviso in 100 comparti, le chiamavano insule. Erano stati orientati i tecnici, che erano il tramite per questa spesa impazzita. Me ne convinco sempre più: erano persone approssimative, un po’ come certi politici che siedono in Parlamento oggi, che non si curano di un patrimonio storico come va salvaguardato. Se ci fossero state le condizioni, sarebbero passati indenni anche nell’abbattere il castello. Sono convinto che si tratta di persone mediocri, che hanno vissuto nel solo tentativo di fare affari. Le imprese a loro collegate si presentavano come grandi, ma avevano un capitale sociale minimo. C’erano imprese per ogni clan politico. Il Pci aveva Mucafer, poi si pagava dazio a Valenzi, che era il sindaco di Napoli. È stata una spartizione a tavolino, per sfere di influenza. Una economia della catastrofe.

Qualcuno però potrebbe dire: dov’era la società civile? Perché i cittadini hanno accettato la distruzione? Perché non c’è stata una riflessione su dove stava andando il paese?

I cittadini prima analizzavano i fatti attraverso i loro partiti, i partiti della sinistra non hanno avuto la capacità di avere un legame forte con la loro base. Se cominci ad accettare qualche compromesso, e sono stati accettati anche dal Pci, che non era alternativo realmente, tutto va a rotoli. Nel dopo terremoto ci sono stati i comitati popolari, ma i sindacati trovarono le loro convenienze.

Come si ritrova una relazione sentimentale stretta tra elettori e i dirigenti e la classe politica? Nessuno sa da dove ricominciare. Le potenzialità ci sono e le vediamo subito dopo le tragedie, le persone che si organizzano, la solidarietà di tipo sociale molto significativa dovrebbe essere messa a frutta anche dopo. C’è una sensibilità nelle nostre zone, ma il tessuto produttivo è debole, ci sono grandi potenzialità.

Fa riflettere un caso di cui parli. Si insediò la Mulat a Lacedonia, ma non furono coinvolti i produttori di latte locale.

Si Mulat si insediò come una cattedrale nel deserto, in una zona agricola che ha un grande potenziale di produzione, oggi stanno scomparendo le aziende zootecniche, si sarebbe potuto tentare un nesso virtuoso, ma all’epoca si disse che il nostro latte era troppo sostanzioso, troppo ricco e nutriente, grasso per essere trattato. Queste virtù vennero viste come se fossero un difetto produttivo.

Si produceva il burro, latticini di qualità, ma arrivò la Mulat: perché la metti qui e non in Emilia Romagna? Ovvio solo per le provvidenze pubbliche, non c’era una visione. A Nusco, c’è una impresa che fa produzione di barche. Sono state persone mediocri, le ho conosciute da vicino, hanno governato e hanno gestito risorse immense, senza nessuna prospettiva per il territorio.

(la foto di copertina è di Franco Arminio)

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