Quel treno dei bambini per sfuggire dalla miseria nera: il romanzo di Viola Ardone

by Felice Sblendorio

Alcune volte basta uno spunto narrativo, una prospettiva diversa, per rendere grande una storia del passato. È così per l’ultimo libro della scrittrice napoletana Viola Ardone: “Il treno dei bambini” (Einaudi Stile Libero, 248 pagine, euro 17,50), caso editoriale dell’ultima Fiera di Francoforte e già in corso di traduzione in 25 lingue. La vicenda non è delle più note. Precedentemente raccontata in un bel saggio di Giovanni Rinaldi (“I treni della felicità”, Ediesse, 2009) e nel toccante documentario “Pasta Nera” di Alessandro Piva, l’iniziativa del Pci e dell’Unione Donne Italiane che, fra il 1946 e il 1952, portò quasi 70.000 ragazzi dal nero del Mezzogiorno a vivere una condizione più favorevole presso altrettante famiglie dell’Emilia Romagna, Toscana e Umbria, torna a essere narrata nel romanzo di Viola Ardone.

Una pagina di grande dignità e solidarietà nazionale che realizzò il sogno di un Paese più coeso e generoso, indirizzato dalla visione politica e dalla volontà di fare che caratterizzò i tempi febbrili del dopo conflitto. A raccontare questi viaggi, queste separazioni che divisero molte famiglie per affrontare il destino e le diffidenze legittime sulla bontà di quell’operazione di solidarietà è la voce inconfondibile di Amerigo Speranza, un bambino con le scarpe troppo piccole o troppo grandi e  troppo consumate da altri, che vive e respira la miseria e la distruzione nei suoi vicoli di Napoli.

La bravura di Viola Ardone è quella di dare sostanza personale alla voce del suo protagonista, di farci entrare nella sua visione delle cose, di farcelo sentire vicino: nell’ingenuità, nella disperazione, nel dolore che lo porterà ad abbandonare sua madre, Antonietta, e le sue radici per non arrendersi al destino. Un romanzo toccante che prende una storia singola per illuminare una memoria collettiva, scavando a pieno nell’inquietudine umana dei sentimenti dei protagonisti senza aver fretta di giudicare, di moralizzare, di indicare torti e ragioni di queste vite condizionate dalla Storia.

Su questi treni che ci riportano alla mente un Paese migliore di quello che stiamo costruendo, bonculture ha intervistato Viola Ardone.

Il treno dei bambini” narra una storia non marginale fra le tante vicende del nostro dopoguerra. Perché ha sentito la necessità di raccontare proprio oggi una storia del genere?

Forse perché nella nostra epoca, dominata dalla distrazione e dal veloce oblio, il recupero della memoria è una dimensione da salvaguardare. E poi perché questa vicenda in particolare mi sembrava, al di là del contesto storico, universale e trasversale: il bisogno, la solidarietà, la separazione, la scelta, il ritorno. Sono momenti che appartengono alla vita di tante persone, in tutte le epoche.

Il tutto è giocato sul filo del ricordo personale delle famiglie coinvolte e dell’impatto storico, generazionale. Quale aspetto l’ha colpita di più?

L’aspetto umano ed emotivo. Mi sono messa letteralmente “nelle scarpe” di Amerigo, ho provato a guardare il mondo con i suoi occhi. E ho cercato di immedesimarmi anche in sua madre, Antonietta, una donna indurita dalla vita ma piena di amore per il figlio. Fino a che punto l’amore di una madre si può spingere per il bene di suo figlio? Fino ad allontanarlo da sé? Quel bambino e quella madre hanno tutti e due la mia voce, io sono sia l’uno che l’altra.

Questo romanzo, appunto, è fatto di voce e lingua, oserei dire: come ha ricostruito e quando l’ha sentito suo il linguaggio di Amerigo?

Amerigo ha iniziato a parlarmi prima che iniziassi a scrivere. Me lo sono visto camminare davanti, in un vicolo della mia città, con le scarpe che non erano della sua misura. Prima ho pensato che fosse triste, ma poi mi sono accorta che di questa scomodità lui aveva fatto un gioco. Questo è il mondo magico dei bambini: riescono a immaginare giochi e storie anche in mezzo alla disperazione.

L’amore comune contiene, mentre quello materno abitualmente deve lasciar andare. Lei, però, come si è spiegata l’audacia delle donne meridionali che lasciarono andare i propri figli al Nord alla ricerca di una vita migliore? Fu il coraggio della disperazione?

Oggi questo gesto è difficile da immaginare. Affidare il proprio figlio a degli sconosciuti per tanti mesi, senza poter comunicare con loro per telefono (non ne avevano) o per lettera (c’era un tasso altissimo di analfabetismo). Ma qual era l’alternativa? La fame, il freddo, le malattie. Queste donne hanno preferito donare ai loro figli un’opportunità piuttosto che tenerli legati a sé.

Il rapporto con le madri, forse, si può costruire solo attraverso l’opposizione: con o contro. È una polarità giusta anche per Amerigo e Antonietta?

La separazione tra madre e figlio è necessaria, è il taglio del cordone ombelicale, che permette la realizzazione di sé come persona autonoma, è la condizione necessaria per avviarsi all’età adulta. Una madre che non lascia andare il figlio lo rende dipendente. Nel caso di Amerigo, però, questa separazione avviene in maniera forzata e semina tra i due una serie di malintesi affettivi.

Ogni viaggio che si rispetti ha una sua andata e un suo ritorno, e anche quello di Amerigo non riserverà sorprese. Quando ritorna a Napoli, però, come lei scrive “la vita torna a restringersi”. La fuga definitiva dalla sua realtà originaria è il suo urlo contro un destino predestinato?

Amerigo, prima di andare a Modena, era contento della sua vita, come ogni bambino può esserlo. Quando torna a Napoli è in grado di fare dei paragoni tra due realtà diverse. È lì che il suo mondo va in crisi. Si sente scisso in due metà: da una parte sua madre, la sua città, i suoi affetti di sempre; dall’altra le cure e il calore di una famiglia, cibo, vestiti, la possibilità di studiare la musica. Napoli, all’improvviso, gli sembra piccola, soffocante. È una sensazione che ho provato anche io, da ragazza, al ritorno da un viaggio all’estero. Ero felice di essere di nuovo a casa, ma mi sembrava di dover calzare scarpe scomode.

La politica nel suo racconto è centrale. Il Pci e l’Unione delle Donne Italiane organizzarono questo piccolo miracolo della solidarietà non come gesto individuale di carità, ma come visione, come orizzonte politico. Vengono in mente le parole di Lorenzo Milani: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.

Don Lorenzo Milani è stato per me un punto di riferimento importante, pur essendo io di cultura  e formazione laica. Nel mio precedente romanzo, “Una rivoluzione sentimentale”, mi facevo guidare da un’altra sua frase: “A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?”. Il senso è quello: se qualcosa si può fare, bisogna farla. E farla insieme, perché l’agire condiviso è agire politico. Politica non significa solo elezioni, campagna elettorale, propaganda, seggi da conquistare. La politica è organizzare la vita delle persone in modo che queste vivano meglio. È una cosa bella, direbbe Maddalena.

Questa storia ci fa ricordare un Paese solidale. È scomparsa questa qualità in noi?

Credo di no. Oggi non siamo più egoisti, forse abbiamo perso la cultura della solidarietà, abbiamo smarrito l’attitudine a pensare a noi stessi come parte di qualcosa. L’Italia del 1946 usciva da una guerra che aveva perso, era sepolta dalle macerie, aveva bisogno di ricostruire. Ma aveva un forte senso del sociale, soprattutto in quelle zone del Paese in cui le persone erano state educate ad averlo. Non si è buoni o cattivi, si è più o meno abituati a condividere determinati valori. Oggi i giovani sono sensibili al tema dell’ecologia. Credo che sia frutto di un lavoro educativo che da anni è entrato nella scuola.

In questo libro si parla anche di cosa sia e di come si formi nella società una famiglia. I legami che si creano, dopo aver affrontato la diffidenza, tengono più a cuore il sentimento che la natura. È così?

La famiglia è oggi al centro di grande dibattito: c’è chi sostiene che essa coincida con quella genetica e chi, invece, è convinto che il nucleo familiare sia quello in cui tutti i componenti vivono e crescono. Io la penso così. Le famiglie arcobaleno, le famiglie allargate, le famiglie con genitori separati e risposati sono modi di stare insieme che travalicano la semplice discendenza anagrafica. La famiglia risponde al codice dell’amore, più che a quello della genetica.

L’ultimo capitolo è un balzo nel 1994, quando la vita di Amerigo è diventata altra cosa rispetto alla fame nera della sua infanzia e le sue scelte sono diventate mature. È un rapporto di irresoluzione quello con il suo passato?

Amerigo, passati i cinquanta, ha qualcosa del bambino che era. Nonostante sia affermato professionalmente e non abbia problemi economici, non ha risolto il nodo affettivo dell’incomprensione con sua madre. Il suo ritorno, quindi, si snoda in questa direzione: risolvere quel conflitto e darsi una possibilità per dichiararsi, metaforicamente, padre a sua volta.

Ultima curiosità: il ragazzo biondo, alla fine, l’ha risolta per tutti quella questione meridionale che lei racconta nel libro?

Purtroppo la soluzione è ancora lontana. Non lontanissima, spero!

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.