“Questa è una società che tollera sempre di più ma accetta sempre di meno”: Caccia all’Omo, il viaggio nel Paese omofobo di Simone Alliva

by Felice Sblendorio

Per verificare l’assunto che nessun diritto civile è conquistato per sempre, bisogna aspettare il vento che cambia, una mutazione politica e sociale che ricodifica valori, stagioni di battaglie, visioni. In Italia, dopo l’approvazione della legge sulle Unioni Civili, il clima per la comunità LGBTQ+ è sicuramente cambiato.

Non una sensazione, ma un dato di fatto. L’anno scorso a renderlo esplicito, nel bel mezzo della narrazione politica salviniana, fu Monica Cirinnà, prima firmataria di quella legge, che dichiarò che bisognava «resistere per esistere». Una resistenza contro le continue aggressioni fisiche e verbali da un lato – a difesa dall’esercizio più meschino e rozzo dell’odio omofobo, e dall’altro contro una sistemica e raffinata strategia di depotenziamento di quei diritti. Sono ancora vicine, su questo tema, le parole dell’ex Ministro Fontana («le famiglie arcobaleno non esistono»), le crociate del Congresso Mondiale delle Famiglie a Verona, il ddl Pillon a testimonianza di una parte di Paese in azione per smantellare – e aggravare – un piano minimo di diritti riconosciuti nel tempo con difficoltà.

A tratteggiare e unire questa doppia strategia – interna ed esterna al Palazzo – è “Caccia all’Omo. Viaggio nel Paese dell’omofobia” (Fandango Libri, 208 pagine, 16.00 euro), scritto dal giornalista Simone Alliva del settimanale L’Espresso. L’attento lavoro giornalistico, nato da un’inchiesta pubblicata sul settimanale diretto da Marco Damiliano, unisce il racconto delle tragiche testimonianze dirette alla riflessione, i dati alla memoria storica, realizzando un quadro d’insieme complesso e vero che si spinge, oltre a raccontare e testimoniare con tatto e abilità il cambiamento negativo in atto nel Paese, a rispondere a dubbi, interrogativi, perchè. Perchè aumentano le aggressioni? Perchè un ragazzo gay viene picchiato con una vera e propria spedizione punitiva: «Sei gay, ti uccidiamo»? Perchè nel Paese queste pratiche violente e discriminatorie, oltre ad avere cittadinanza, sembrano godere di legittimità politica?

bonculture ha intervistato Simone Alliva.

Caccia all’Omo” è il racconto di un Paese che, dopo alcune conquiste, si è riscoperto in parte omofobo. Questo viaggio parte da una domanda: perchè succedono ancora questi episodi. Che risposte ha trovato?

Per trovare questa risposta ho dovuto attraversare il Paese, attraversare diverse vite e poi fare un’operazione puramente giornalistica: scardinare il fenomeno dell’omotransfobia, scomporlo e leggerlo attraverso diverse lenti: quelle della politica, della sociologia, della psicologia, dell’informazione. Ho trovato più di una risposta.

Si nota nelle risposte una tesi politica forte. Gli atti omofobi – realizzati in questi ultimi due anni sotto forma di squadrismo – sono ispirati da alcuni partiti che alimentano queste isterie.

Più che una tesi politica direi che è un dato acquisito, essendo documentati dalle cronache sia spedizioni punitive che tentativi di minaccia da parte dei partiti di estrema destra e di quelli inseriti oggi nella galassia della destra sovranista. C’è una strategia ben precisa che mira a raccogliere il consenso creando nuovi nemici. Insieme a questo c’è la spaventosa assuefazione a un linguaggio e a un comportamento violento, quasi sempre inutilmente violento e gradasso che si fonda sulla paura dell’altro: della persona lgbt che corrompe i tuoi figli con la teoria del gender, che sfrutta uteri per riprodursi, che si prostituisce sul tuo marciapiede e che vuole distruggere la famiglia tradizionale. C’è sempre uno che si alza e dice: “la gente ha paura, deve essere protetta”. La gente ha paura perché la paura è diventata un’industria, facile e proficua da alimentare.

Franco Grillini, storico attivista e politico, sottolinea che i diritti civili sono stati «fatti dalla sinistra, dai socialisti, dai democratici al potere. È una roba che dovrebbe essere di natura più liberale. Il problema è la destra che abbiamo noi». Quanto ha influenzato storicamente, nella mancata evoluzione dei diritti civili di questo Paese, la gestione del potere da parte di una destra così nazionalista?

Storicamente destra e sinistra, sulle questioni dei diritti civili, hanno fatto ben poco. Ricordiamo che solo fino a pochi anni si è consumato uno scontro quasi mortale all’interno della sinistra su forme molto più blande rispetto alle unioni civili approvate. Anche il ddl Cirinnà manca di una parte fondamentale, quella dell’adozione del configlio, osteggiata dall’anima cattodem del Partito Democratico che ancora oggi è molto diffidente su certi temi. Però il tempo scorre e si diventa più saggi: vale anche per la politica. La destra non sovranista può vantare esempi di lungimiranza politica su temi che riguardano la vita delle persone: penso a Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo, Anna Maria Bernini. Il problema è che oggi rappresentano una minoranza.  

La maggioranza sovranista, invece, è concentrata a difendere la famiglia “tradizionale” come unica possibilità, impegnandosi contro la famigerata ideologia gender e una parità di diritti e sensibilità diverse. Questa narrazione politica che riduce tutto alla norma, che ovviamente rassicura, cosa cela sotto?

Direi una strategia. La disumanizzazione ricopre sempre un ruolo fondamentale nei crimini di odio. Per odiare qualcuno devi prima disumanizzarlo, considerarlo di un’altra specie. Così è nella storia di ogni tempo, di ogni luogo. In “Caccia All’Omo” si può leggere un colloquio che faccio con due psichiatri proprio per comprendere questa strategia. A un certo punto della conversazione citano un libro terribile e meraviglioso che spiega benissimo la dinamica di questa politica, “I Sommersi e I Salvati” di Primo Levi: «Visto che li avreste uccisi tutti che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?», chiede la scrittrice Gitta Sereny a Stangl, detenuto a vita nel carcere di Düsseldorf; e questi risponde: «Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni, per rendergli possibile fare ciò che facevano».

In questi racconti emerge che chi esercita questo odio non ha specifiche caratteristiche di età, genere, etnia, classe sociale. Banalmente: perchè si odia?

Perchè mancano gli strumenti, manca lo sguardo che ci permette di vedere l’altro per quello che è: una persona. Ma c’è qualcosa di più. Oggi chi aggredisce non ha più paura né vergogna, si specchia nella maggioranza di «normali», della continuità della specie che va protetta, nel mondo che precipita e va fermato.

Le vittime di omofobia, un reato che conserva una parte significativa di sommerso, nel 2019 sono state 212. In queste varie esperienze raccontate l’isolamento gioca un ruolo decisivo. La violenza fisica è l’ultimo atto?

La violenza fisica è l’apice, ma ci sono vari livelli di violenza. Quella che mi ha colpito di più durante questo viaggio è sicuramente quella psicologica, che spesso subiscono gli adolescenti e non parlo soltanto del bullismo omotransfobico tra le mura scolastiche, ma anche della violenza che cresce dentro le famiglie. I genitori che portano i figli dallo psichiatra “perchè sei malato e ti devi curare” provocano effetti psicologici devastanti. Una ragazzina di 14 anni che attraversa questo inferno non sa che poi si cresce, non sa che si supera e tutto “andrà meglio”. Non può saperlo perché il suo orizzonte di vita e la sua prospettiva di futuro è limitata al giorno dopo e quindi crescono dentro pensieri orribili come il suicido, che è una soluzione permanente a un problema temporaneo.

Ampio spazio è dato al tema della rappresentazione mediatica della comunità LGBTQ+ isolando tre categorie: «l’immagine patinata, la nuova tendenza e quella “patetica”». Quante responsabilità hanno la stampa, la televisione, i media in generale nella costruzione di stereotipi inesatti? Ed è possibile accettare una rappresentazione piatta in programmi popolari – penso ai reality show oppure all’infotainment – che passa solamente attraverso un canone simbolico da “macchietta”?

Prima di tutto bisogna capire cosa intendiamo per “macchietta”. Già in questa parola c’è un pregiudizio. La “macchietta”, a cui ognuno da forma e pensiero, esiste nella comunità Lgbt e non c’è nulla di male nel rappresentarla.

Certo, se non è l’unica rappresentazione che si offre.

Non amo il politicamente corretto. La comunità ha dentro di sé tutti i colori dell’arcobaleno. Sarebbe bene rappresentarli tutti e non solo quello che rassicura e fa sorridere. C’era uno show televisivo molti anni fa dal titolo “Glee”: era un esempio di inclusività. Dentro c’erano tutti i colori. Sulla rappresentazione, però, i media devono fare molta attenzione, sull’uso delle parole soprattutto. Le lesbiche, ad esempio, non esistono. Non esistono in tv, sui giornali. Questo è un tema che ho cercato di approfondire e che mi affascina molto perché riguarda proprio me come uomo che vive dentro questa società fatta di maschere e stereotipi. 

Molta parte dell’opinione pubblica sostiene che questo tempo presente sia molto più accogliente nei confronti delle minoranze. Le battaglie degli ultimi cinquant’anni in Italia, nonostante questa parentesi che raccontiamo, hanno inciso profondamente in questa direzione?

In principio fu la rivoluzione femminista: la prima rivoluzione del secolo scorso. La separazione della sfera della sessualità e del piacere da quella della riproduzione, e l’autodeterminazione, hanno aperto la strada anche per l’autonomia delle persone Lgbt, hanno fondato la possibilità di non considerarsi anormali, contro natura. La comunità deve molto a questa rivoluzione, che favorì l’autodeterminazione di tutti gli esseri umani. Poi è arrivata la rivoluzione arcobaleno. Il movimento lgbt ha liberato anche gli eterosessuali dai loro pregiudizi, dalle loro paure e ha aiutato gli etero a ricucire i rapporti con i propri famigliari e gli amici gay, lesbiche, trans. Dal 1969 a oggi, nel mondo, l’avanzata del progresso è stata senza precedenti nella storia dei movimenti per i diritti civili. Eppure, l’Italia ancora fatica a camminare perchè ogni tanto si mette in un angolo con il rischio di restarci. Questa è una società che tollera sempre di più ma accetta sempre di meno. La differenza è fondamentale, e la spiegava benissimo Stefano Rodotà: sono “tollerante” se accetto che altri vivano accanto a me, a condizione però che siano separati in luoghi di abitazione e di socializzazione, limitandomi ad accettare il precario contatto.

Nonostante sia slittata di una settimana l’adozione del testo base in Commissione Giustizia alla Camera, in questi giorni sta facendo discutere un disegno di legge contro l’omofobia a firma del deputato dem Alessandro Zan che, dopo quasi venticinque anni dal primo tentativo, cerca di aggiungere alla Legge Macino la discriminazione sessuale alle aggravanti etniche, razziali e religiose. La Cei ha subito denunciato una “deriva liberticida”. È davvero in ballo la libertà d’opinione?

Su L’Espresso abbiamo pubblicato in anteprima il ddl. Basta leggerlo per capire che la “deriva liberticida” è soltanto nella mente della CEI e della sua armata di detrattori. Direi che è proprio una questione tecnica: è giuridicamente impossibile approvare una legge come quella propagandata dai vescovi e dai gruppi anti-lgbt. Mi sorprende questa continua reiterazione di una fake news smentita dai fatti. Soprattutto perché è una narrazione vecchia di 24 anni. Io non so contro cosa manifestano con i loro sit-in, con le loro piazze. Sono i primi a dichiararsi sconvolti dopo un caso di violenza ma non riconoscono che moltissime persone vengono massacrate proprio perché Lgbt. Come si fa a confondere la libertà di opinione con il discorso d’odio? Chi insulta fa cose, compie atti di violenza, li alimenta. Non possiamo confondere espressioni di opinione con atti linguistici che istigano alla violenza. Quando qualcuno dice “frocio di merda dovresti bruciare” non sta esprimendo un’opinione.

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