“Viviamo in un mondo diviso di cui nessuno sa come riprendere il controllo.” L’ascesa e il declino della classe competente: un colloquio con Raffaele Alberto Ventura

by Felice Sblendorio

Che cosa succede a una classe competente, a cui è affidato l’ingrato compito di ridurre le incertezze e i rischi, se non è più in grado di garantire sicurezza? La risposta più lampante è nell’incerta gestione pandemica scatenata dal covid-19, il virus che ha scosso ulteriormente nei primi mesi dell’anno, e sta mettendo a dura prova in questi giorni dominati dalla seconda ondata, l’efficacia dell’élite della competenza. Ma cos’è diventata, in un presente ingovernabile, la competenza?

A tratteggiare l’ascesa e la caduta dei protagonisti di una classe sociale legittimata da un rapporto intermittente e conflittuale con la società è “Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti” (Einaudi, 248 pagine, 14 euro), l’ultimo saggio di Raffaele Alberto Ventura, analista del Groupe d’études géopolitiques di Parigi.

L’autore, intellettuale poliedrico e metodologicamente interessante, ritorna dopo il prezioso “Teoria della classe disagiata” e “La guerra di tutti” con un saggio che forma una trilogia del collasso utile a comprendere il decadimento economico e culturale che assedia il cuore dell’Occidente. In questo lavoro, più centrato e stilisticamente più coerente, Ventura realizza un’indagine sociale sul paradigma della competenza, che nei secoli ha garantito prestigio, crescita economica, capacità di prevenire i rischi e aumentare il grado di sicurezza percepita e reale delle nostre democrazie. La trattazione, però, ci aiuta subito a comprendere che quella dei competenti più che una caduta è un’implosione che ha determinato una «fragilità sistemica».

I dubbi, che l’autore prova ad argomentare spaziando da grandi a sconosciuti pensatori, sono decisivi: perchè il rapporto ineguale che legava élite e popolo non è più conveniente? Perchè all’aumentare della competenza diminuisce la capacità di reazione? Le risposte, più realiste che catastrofiche, spiegano più di un punto di rottura (forse insanabile) delle nostre democrazie liberali.

bonculture ha intervistato Raffaele Alberto Ventura.

Radical choc” indaga l’ascesa e il declino della classe competente, una categoria equivoca per il dibattito pubblico contemporaneo. Cominciamo dal principio: chi sono e a cosa servono i competenti?

Ognuno può definire la competenza come preferisce, disegnando una classe più o meno ampia, in funzione della problematica che si pone. Io ho scelto di definirla nel modo più esteso possibile, come classe d’individui che attraverso un sapere specializzato segnalato da delle credenziali – ad esempio i titoli educativi – è in grado di offrire un servizio di “riduzione dell’incertezza”. Perché la definisco in questo modo? Perché permette di capire che nel rapporto che la società intrattiene con la competenza esistono tre ordini d’incertezza: non soltanto l’incertezza ridotta dal competente con la sua attività; ma inoltre l’incertezza relativa alla stessa qualifica di competente ovvero l’incertezza dei titoli non più in grado di garantire la competenza; e infine l’incertezza prodotta dal competente come effetto collaterale della sua attività. Se l’ascesa dei competenti coincide con la riduzione dell’incertezza, la sua crisi si presenta come apparizione sempre più massiccia di nuovi rischi che devono essere tenuti sotto controllo.

Siamo dipendenti da questa civiltà della competenza?

La divisione del lavoro, il progresso tecnologico, la specializzazione hanno permesso di sviluppare le forze produttive, aumentare il benessere e la sicurezza. Ma questo processo produce dei monopoli radicali e appare come difficilmente reversibile: dal momento in cui certe funzioni sociali vengono delegate è difficile riappropriarsene, se ne diventa dipendenti. Il vero problema, tuttavia, sorge dalla necessità di riuscire a finanziare questa estensione continua del dominio della competenza, perché nel momento in cui non fosse più possibile non sapremmo più come vivere senza.

Le risposte inesatte o del tutto sbagliate dei competenti hanno rotto quel patto di legittimazione con la società. Cosa ha prodotto questa frattura?

Le risposte inesatte non sono un problema in sé: accadono. La nostra conoscenza del mondo è limitata, fallibile. Il problema è che le classi competenti hanno dovuto legittimarsi promettendo più di quanto fossero in grado di garantire: hanno cioè preteso di occupare uno spazio più ampio di quello che erano in grado di padroneggiare. La crisi di legittimazione sorge dunque da una delusione che traduce lo scarto tra le promesse e i risultati.

Quanti problemi genera la sproporzione fra i risultati disattesi e il valore economico speso per la formazione dell’élite competente?

Venuti a cadere gli antichi miti con cui i poteri si legittimavano, prima Dio e poi la volontà generale del popolo, alla tecnostruttura amministrativa che governa le nazioni e l’economia non è restato altro che legittimarsi dimostrando di potere garantire la massima efficienza, la capacità di fornire risultati, insomma sviluppo economico ma anche salute, insomma dati quantitativi e quantificabili. Avendo posto questo nuovo metro di valutazione, inevitabilmente lo subisce essa stessa: e quindi nel momento in cui non garantisce più l’equilibrio nello scambio ineguale su cui si fonda il privilegio della classe competente, insomma quando i benefici diminuiscono rispetto ai costi, allora essa suscita quel senso di delusione di cui parlavo. Diminuiscono i rendimenti marginali e soprattutto aumentano esponenzialmente i costi.

La reazione populista diventa così una crociata indistinta contro la ragione?

Ragione è un modo di dire ragione burocratica e amministrativa, perché ci sono innumerevoli altre forme di razionalità. Ma questo particolare tipo di ragione appare in crisi in quanto concepita per gestire molto bene le cose sempre uguali ma è incapace di adattarsi alle situazioni inedite. Non solo, ma non è in grado di concepire questo suo limite per cui continua a operare inseguendo le finalità per le quali era stata programmata anche quando queste diventano controproducenti e inumane. Da qui sorge la reazione populista, sia come reazione agli effetti collaterali che come espressione di una frustrazione: spesso i populisti non sono altro che gli scarti del processo di riproduzione delle competenze, quelli che hanno accumulato titoli e competenze ma non sono stati accettati all’interno dell’élite.

Ritorna in queste pagine quella famosa «classe disagiata» che, molto spesso, non riesce a entrare nel cuore della tecnostruttura. L’anti-intellettualismo è l’ultima arma di difesa (e di conflitto) di una generazione che ha speso ambizioni e risorse per la creazione di uno «status»?

Storicamente, i cambi di paradigma scientifico, culturale, politico, sono operati da frange deluse della classe competente: delusi perché nella corsa improduttiva ad acquisire le credenziali essi hanno fallito, eppure armati delle stesse competenze che ora possono usare per fragilizzare il sistema. Questo non vuol dire che l’intera classe disagiata possa essere rivoluzionaria, perché si tratta di una classe che ha una strutturale incapacità di cooperare che le impedisce di farsi soggetto unitario, ma che al suo interno i comportamenti conflittuali portano a un’esacerbazione dei conflitti che mina la capacità dell’intera classe competente di operare in maniera efficace, accelerando il suo tracollo.

Il covid-19 è la tempesta perfetta per tentare di indebolire ancora di più le élite mondiali. Lei scrive: «Il coronavirus non ha semplicemente fatto ammalare il sistema, ma lo ha hackerato». Nonostante un rapporto paranoico con i rischi e la sicurezza, nemmeno i competenti hanno immaginato una difesa efficace contro l’eventualità – nota da anni – di un rischio pandemico. Una prova d’impotenza?

Gli esperti a dire il vero degli scenari li avevano individuati, e direi pure che sulla carta appaiono efficaci. Ma avevano sottovalutato la loro applicabilità. Certo, potremmo dire che dovevano essere ascoltati, ma in fondo è il loro limite più grande quello di non avere capito che non sarebbero stati ascoltati, anzi di non avere capito che non potevano essere ascoltati, perché le loro misure tecnicamente efficaci erano politicamente inattuabili. Tant’è che pochissimi Paesi sono riusciti ad attuarle. Tutti quei piani pandemici erano sostanzialmente inutili, carta su carta che ci ha forse dato l’illusione di essere preparati, perché gli epidemiologi di tutta evidenza non sapevano come funziona realmente uno Stato. Non basta sapere qual è “tecnicamente” la scelta da fare. Questa “incompetenza” è un prodotto della divisione del sapere ma anche della divisione del potere politico: viviamo in un mondo diviso, separato, di cui nessuno sa come riprendere il controllo.

Una certa specializzazione burocratica nella divisione del lavoro competente è uno dei principali problemi nella gestione totale di questa pandemia?

Sicuramente lo è perché ha creato continui conflitti di attribuzione. Ma il problema è soprattutto la divisione disordinata dei poteri. L’esempio più drammatico è la creazione di un’applicazione inutilizzabile perché dietro al contact tracing non c’è nessuno per orientare chi la usa, testare, eventualmente sovvenzionare chi deve stare a casa. Ma di nuovo: a cosa serve investire tante risorse in competenze se è per ottenere un sapere sparpagliato e di cui comunque non riusciremo a fare buon uso? Per che cosa ci ostiniamo a capire il mondo?

Le teorie del complotto hanno coinvolto in questi mesi anche i cosiddetti “competenti”. Oramai c’è una falla di validazione del lavoro tecnico e intellettuale che, inevitabilmente, crea confusione?

Il problema sta nella coesistenza tra un culto degli esperti basato sulle credenziali e la loro umana fallibilità: se, come abbiamo visto, tutti possono sbagliare, e spesso sbagliano non appena travalicano il proprio campo specifico di competenza ma talvolta persino all’interno del proprio, allora forse potremmo anche liberarci dal principio di autorità e ammettere che talvolta una risposta certa non ce l’abbiamo. Talvolta sarebbe più ragionevole lanciare un dado. E se prenderemo un rischio, alla fine forse subiremo un danno ma non ci saremo illusi di essere al sicuro.

Questo libro – dopo “Teoria della classe disagiata” e “La guerra di tutti” – forma una trilogia del collasso. È una prospettiva immediata?

Il collasso è quello stiamo vivendo nelle economie avanzate dalla fine degli anni Sessanta, solo che abbiamo messo mezzo secolo per accorgercene. Curiosamente alcuni lettori pensano che io pretenda fare una profezia sul futuro, mentre sto semplicemente proponendo una storia del passato recente dando un nome all’ultima fase storica. Non mi pare nulla di granché originale visto che un grande storico come Eric Hobsbawm, in quello che è probabilmente il libro di storia contemporanea più celebre degli ultimi decenni, definisce questo stesso periodo con un termine praticamente sinonimo: la frana. Ma evidentemente anche i libri celebri e citati non li legge nessuno, o nessuno li prende sul serio, sicché io posso facilmente passare per provocatore o apocalittico quando non faccio altro che ricapitolare cose che si dicono da mezzo secolo. Si tratta di una delle caratteristiche più suggestive di questo collasso: esso ha reso impronunciabile il suo nome.

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