Riconoscersi figli: un dialogo con Paolo Di Paolo

by Felice Sblendorio

Bastano poche pagine del nuovo libro dello scrittore Paolo Di Paolo, “Lontano dagli occhi” (Feltrinelli, 190 pagine, 16 euro), per perdersi in una materia incandescente come l’epifania delle origini. Poche pagine per inseguire, con lo sguardo lieve e coinvolto dell’autore romano, il cambiamento che incrocia il sentirsi ancora figli e il divenire già genitori di tre donne (Luciana, Valentina e Cecilia) e di tre uomini (l’Irlandese, Ermes e Gaetano). Pochi mesi, quasi il cambio di una stagione, per comprendere come possano trasformare gli eventi, gli arrivi.

Esponendo i protagonisti alle conseguenze che legano una condizione umana a metà fra il non più e il non ancora, Paolo Di Paolo cerca di dare un senso al venire al mondo di tanti, utilizzando la letteratura per colmare quei vuoti della vita che restano afoni. In una prova che chiama in causa vita e scrittura in parti uguali, diventa limpida materia esistenziale l’urgenza di sapere, l’accettazione di non poter ricomporre esattamente una verità e il sogno di pacificarsi con occhi che, ormai, sono lontani nel tempo. bonculture ha intervistato l’autore.

In “Lontano dagli occhi” racconta tre storie che potrebbero essere dieci, o cento, e scrive che “Niente ci accomuna come essere figli”. In questo romanzo, che parla di vita e di vite, questa predisposizione dove porta i suoi protagonisti?

Questa storia poteva moltiplicarsi in cento o in mille altri racconti. Ogni personaggio poteva mutare con una variabile diversa, soprattutto se uno guarda al proprio essere figlio come una serie di coincidenze impazzite. È come se io avessi provato a dialogare con questi sei personaggi come se fossero i genitori di tutti, cioè i genitori prima di noi. Questa frase, che ci ricorda che niente ci accomuna come l’essere figli, è letta spiritualmente parlando nel modo più neutrale: solo l’evidenza realistica del fatto che uno viene al mondo, secondo me, è sempre abbastanza prodigiosa. Il libro racconta questo essere figli e di come, se poi uno diventa genitore, questo essere figlio cambi di segno, diventi non necessariamente una cosa diversa ma più stratificata, profonda.

Alla domanda che ci chiede quando arrivi il tempo in cui non basta più essere figli come rispondono i suoi personaggi? E, più in generale, arriva sempre questo tempo?

Io non so se arrivi per tutti, però è evidente che ci siano delle fasi che possono essere molto tardive, anche alla resa dei conti prossima al congedo del mondo, in cui uno può essere attraversato da quella domanda. A quel punto, però, ogni interrogativo diventa incandescente. Non so se questi personaggi guadagnino qualcosa, se questa trasformazione li renda migliori o peggiori; ma è chiaro che nulla sarà come prima. Nel movimento del cambiare, questo aspetto li disorienta, li turba, li complica. Nel raccontare questi giovani uomini e donne ho tentato di affrontare il più possibile tutti gli stati d’animo che un accadimento del genere produce.

L’impreparazione, che poi diventa tormento e disagio, è il filo rosso che unisce queste sei esistenze.

Credo che nessuno sia davvero preparato. Anche il tema dell’inadeguatezza, soprattutto nel contemporaneo che si è interrogato sul tema dai padri evaporati di Recalcati per arrivare a quelli assenti e fragili, è centrale in questo discorso. L’impreparazione, che ho accentuato perché ho preferito personaggi maschili in affanno con le scadenze della vita, col fiato corto, ricalcitranti rispetto a quell’appuntamento, è qualcosa che sentono davvero come una condizione personale. Gaetano dice che non c’è libretto delle istruzioni e io credo che sia proprio così. Ti scontri con un’evidenza: tanti te ne possono parlare ma ci sarai solamente tu, alla fine, a fare i conti con quell’evento.

Il libro parte dai padri, figure in sordina che scompaiono, restano ai margini delle storie. L’indisponibilità dei figli a diventare padri è una difesa dai fallimenti, dalle incertezze che fanno tremare la vita?

Dal mio punto di vista sono fragili e sfuggenti perché, probabilmente, temono di essere inchiodati a un processo a cui un figlio, pur senza dire nulla, ti sottopone. Un bambino ti mette spalle al muro e ti fa fare i conti con quello che sei diventato. Gaetano, ad esempio, si chiede cosa dirà a suo figlio di sé e dell’uomo che forse non è ancora diventato quello che desiderava essere. In questo senso è come se fosse già attiva in lui una sorta di bilancio esistenziale. I tre padri di questo romanzo stanno evitando, prima che con qualcuno che verrà al mondo, l’appuntamento con se stessi.

Molto spesso si discute sulla scelta di fare figli o meno, del senso di colpa o del disagio che una donna può provare testimoniando questa decisione. Le donne di questo romanzo, però, sembrano più prese da un disagio intimo, privato, circoscritto. È così?

Scrivere di tre donne, per un uomo, è qualcosa di problematico. Io non credo nella differenza di genere applicata alla scrittura, perché è una cosa ridicola, però è evidente che sia un tema che si ricollega con l’esperienza. L’esperienza della gravidanza che mi è negata per questioni biologiche mi ha messo a confronto con la prova di costruire uno stato d’animo complesso senza mai fare né la retorica positiva o enfatica della gravidanza come dono assoluto e, dall’altra parte, nemmeno estremizzare le fatiche e le turbolenze fisiche e psicologiche. Ho cercato di far trasparire un malessere che sta prima e dopo, e che quel passaggio di nove mesi intensifica. Poi mi sono chiesto: ci si può sentire energiche, stupite e poi un minuto dopo sentirsi sfatte, preoccupate? Questo è il moto che ho voluto testimoniare, senza giudizio.

I corpi testimoniano questa inquietudine. Per Luciana è evidente. Sono in ostaggio dei propri corpi?

Quando scrivo questa cosa la sento sempre molto. I corpi, forse, testimoniano una sorta di assedio: ti ricordano quello che non puoi più essere, non puoi più fare, non potrai più vivere. È un modo estremista di guardare a questa trasformazione con la consapevolezza che nelle mie tre protagoniste cova un malessere che va aldilà di questo accadimento.

Il tempo è sempre un elemento centrale nei suoi scritti. Perché ha scelto le illusioni e le promesse del decennio sospeso degli anni ‘80?

C’è un nesso autobiografico perché l’anno di nascita del bambino che viene al mondo nella storia coincide con il mio. Nonostante questa vicinanza ho ricostruito questo decennio con un grande studio di materiali d’epoca. L’ho scelto un po’ per questo spunto autobiografico e un po’ perché sono anni difficili da mettere a fuoco. È un fondale luminoso, relativamente luminoso, che segna l’uscita dagli anni di piombo e ci dona una luminescenza che dà il segno di una speranza quasi ingannevole: di speranze che somigliano a inganni. Prima di cominciare a scrivere questo romanzo ho chiesto a molti dei pareri su quel tempo e il direttore de l’Espresso, Marco Damilano, mi ha ricordato due fatti che entrano nella narrazione: il quarantennale della vita politica di Andreotti e i manifesti neri con la foto di Emanuela Orlandi appena scomparsa. In quell’estate dell’83, fra partiti in agonia e una ragazza che scompare, sembra ci siano ombre in agguato, minacce. Mi ha molto incuriosito questo aspetto, e ho lasciato che quel tempo così sospeso agisse sui miei personaggi.

Lo scenario, invece, è Roma. I protagonisti sembrano indifesi, estranei al magma che muove la città. Sono marginali?

La città che ho scelto è quella che mi ha scelto sin dalla nascita. Roma è slabbrata, piena di contraddizioni e tentazioni che non portano a niente. Sembra la Roma dell’ultimo film di Paolo Virzì. È vero che le sue “Notti magiche” sono ambientate negli anni ‘90, ma c’è quella stessa sensazione di fine di un mondo che, paradossalmente, si respira anche ora perché Roma è sempre la fine di un mondo. Volevo far sentire una città piena di illusioni, di agonia, di cose che ti seducono e ti abbandonano. Anche i personaggi sono dentro questo magma e non possono che essere estranei fluttuanti nel grande corpo della città.

“Una vita intera, lontano dagli occhi”: questa vita ha molto a che fare con il Paolo uomo. La letteratura aiuta a pacificare le distanze, i vuoti?

Non volevo fare l’autobiografia, un memoir, l’autofiction. Nel momento in cui lavoro sulla finzione, quella finzione si ricongiunge nel finale in un punto di verità, riempiendo dei vuoti. Quando agiscono, hanno una funzione terapeutica anche se tu non riconosci il vuoto che la narrativa sta riempiendo. Ti restituisce, però, un pezzo di storia mancante, potenziale, alternativa. Così sono arrivato a “Vita2”, la mia, che in fondo è quella a cui tutti tendiamo: più perfetta di quella che viviamo, più piena di quella che riusciamo a vivere. Io ho cercato di sognarla questa vita secondaria, perché credo che sia una delle cose che più ci tenga vivi la possibilità di una vita aumentata.

Uno sguardo di verità.

Mi chiedo: perché avrei dovuto scrivere proprio questo romanzo se non ci fosse stato un punto bianco da riempire per me? Questo non significa che io dia un valore autoreferenziale all’operazione, ma ho cercato di mettere alla prova della finzione i personaggi per guadagnare un sovrappiù di verità.

Le combinazioni genetiche si sono impastate con qualcosa di più urgente e vitale, necessario: stare al mondo”, scrive. Alla fine è l’unica cosa che conta?

Quella frase è una chiave di volta per l’esistenza del libro. Credo che una logica asfittica dei rapporti umani, giocati soltanto su una prospettiva genetica, di sangue, egoistica, sia problematica. Quando ci convinciamo che tutto sia perimetrabile in un dato anagrafico e genetico, credo che sia tutto troppo poco per dire quanto siano vaste l’esperienza e le identità, al plurale, che ci attraversano. Noi non siamo altro che il frutto di quello stare insieme agli altri. E il risultato non è una somma, ma un semplice accumulo sghembo di incontri, esperienze, affetti. 

“Così funzionano le storie umane: una sola linfa, il sangue umano, è troppo poco”, scrive ancora. Dire oggi cosa sia una famiglia è difficile: lei l’ha capito?

Non lo so davvero. Ci sono dei modelli, una tradizione e una società che si condensa in queste forme. Però se avessi una risposta netta credo che negherebbe tutto il senso del libro. Le domande restano ancora scottanti. Io ce le ho e le mie restano irrisolte. Alla fine però, anche ingenuamente, ho capito che la differenza è prendersi cura, pure nell’errore e nei casini che uno fa prendendosi cura dell’infanzia di un bambino. La differenza è una scelta: voler stare al mondo accanto a qualcuno. Di fronte a questo si ferma ogni schema.

Quale domanda ritorna con più forza?

Le domande tornano tutte. A volte credi di aver risposto ad alcune, ma ti illudi. Dopo questo libro mi sembra che siano rientrate tutte in circolo. L’illusione è quella che raccontare questa storia abbia attenuato il peso e la preoccupazione di qualcuna di queste domande. In realtà, però, non c’è una domanda più forte. Troppe ancora mi martellano e, sinceramente, ne farei a meno di qualcuna.

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