«Rock ‘n’ Soul» Le storie di musica e spiritualità di Noemi Serracini

by Gabriele Merlini

Affidarsi alla spiritualità come elemento per analizzare, con differenti gradi di partecipazione e coinvolgimento, le carriere di alcuni musicisti potrebbe essere un’impresa rischiosa se non chiariamo dall’inizio cosa si intenda con il termine spiritualità.

Noemi Serracini nel suo Rock ‘n’ Soul. Storie di musica e spiritualità (Arcana, 2021) fortunatamente mette le carte in tavola fino dalle prime pagine affidandosi a una definizione che convince: «la spiritualità ha molto a che fare con ciò che facciamo del nostro disordine interiore. Riguarda il modo con il quale maneggiamo le nostre passioni, la capacità che abbiamo di canalizzare l’energia dentro di noi, l’impulso di eros e thanatos alla base di ogni esistenza.» Un approccio che tira in ballo, e non potrebbe essere altrimenti, anche la creatività. Da qui la constatazione di quanto le vicende riportate nel saggio – le vite di dieci compositori nell’ottica dei rispettivi livelli di misticismo e/o trascendenza – siano principalmente cronache di atti creativi, genesi artistiche e formazione personale. Variegate, contrastanti e ricche di spunti. Perciò, casomai si ami il settore, approfondire le tematiche è un esercizio sia doveroso che stimolante.

bonculture, in occasione dell’uscita del libro, pubblica un dialogo fra Noemi Serracini e Gabriele Merlini, giornalista di musica e cultura per Rockerilla, autore del saggio No Music On Weekends. Storia di parte della new wave .

Merlini: Come spesso accade, se maneggi un saggio strutturato sullo stile di Rock ‘n’ Soul, per prima cosa l’occhio cade sulla lista dei nomi scelti: eterogenea per stili, provenienze e generazioni. Poi in una seconda fase ti addentri nella lettura e spuntano altri gradi di separazione. Su tutti, le varie educazioni religiose o adesioni a un culto. Ad esempio, i primi tre presi in esame: George Harrison, Patti Smith e Leonard Cohen. L’influenza orientale del primo raggiunta in una fase ormai di adulta consapevolezza, il discusso cattolicesimo della seconda, le radici e il retaggio ebraico del terzo. Ma anche i modi nei quali spaziano e si declinano queste spiritualità: dalla pittura, alla poesia all’impegno civile. Tutto talmente articolato da richiedere valutazioni complesse. In quale modo hai lavorato sulla selezione dei partecipanti, lo scheletro del testo, per restituire un mondo così vasto?

Serracini: Prima di tutto ho stabilito cosa volevo raccontare: storie di musica e spiritualità. In un secondo momento ho scelto di circoscrivere la mia ricerca ai soli artisti e artiste solisti, quindi escludendo da subito i gruppi musicali (il racconto dei Beatles all’interno del libro è funzionale alla vicenda di George Harrison) e una volta deciso che sarebbero stati songwriter internazionali ho iniziato a riflettere sulle storie che in parte già conoscevo. Ho lavorato sulle biografie mettendo a fuoco tutte le esperienze di risveglio che portavano a prese di coscienza profonde, attivando intensi processi di ricerca interiore, e riflessioni sulla spiritualità, che in alcuni casi hanno spinto gli artisti verso vere e proprie conversioni religiose.

Considerazioni che portano all’inevitabile domanda su chi invece hai lasciato fuori ma, alla fine, avrebbe meritato una menzione? (Io ci avrei perso il sonno. Per dire. In una operazione così avrei trovato imprescindibile ficcarci Paul Simon. Ma appunto il bello sta qui. Nell’atto autoriale di scelta.)

Partiamo dal presupposto che volevo una pluralità di voci, ho iniziato una ricerca che si è evoluta da un artista all’altro in modo molto spontaneo. Infatti, dopo una prima riflessione a tavolino con un elenco di una trentina di nomi, ho capito che non sarebbe arrivata così razionalmente la decina che cercavo. Di tutti quelli che avevo scritto durante la prima fase di lavoro ne ho salvati quattro: George Harrison, Patti Smith, Leonard Cohen e Nick Cave. Li cito in ordine sparso. Il primo a tracciare la rotta è stato proprio Harrison. A partire da lui hanno iniziato ad affiorare ricordi di brani ed esperienze che mi hanno aiutato a recuperare le voci che ho scelto di approfondire e di raccontare. Sicuramente in tanti altri meriterebbero una menzione, tra i primi che mi vengono in mente Marvin Gaye, o Bob Marley, ma io personalmente non sento la mancanza di nessuno in questo saggio.

Ho trovato coinvolgente il capitolo che dedichi a Nick Cave: «da sempre tormentato, originale e fuori dagli schemi, la sua forza sembra coincidere con il punto di rottura, che cerca nella provocazione, nel ribaltamento di senso, nell’analisi introspettiva di ogni cosa che attraversa.» Negli ultimi tempi i live di Cave hanno aumentato il portato sacro, divenendo atti di comunione totale con il pubblico. I motivi sono intuibili. Si tratta di riti di mani che si toccano, corpi accalcati, liturgie nemmeno troppo laiche di sudore e sovrapposizione nei quali il cantante assolve l’ascoltatore e viceversa. Ma questo non vale per tutti. È stato importante, nella fase di scrittura di Rock ‘n’ Soul, riflettere anche sulle propensioni da palco degli artisti, diverse tra loro almeno quanto la sfera privata e compositiva?

Se racconti artisti come Nick Cave la “propensione da palco” non solo è importante, ma imprescindibile. Come giustamente osservi tu, e come emerge dal capitolo che gli dedico, parte della sua sacralità si esprime proprio attraverso il rapporto con il pubblico, che coltiva anche al di fuori dei live. I suoi concerti sono ancora delle esperienze trasformative, soprattutto se segui e ami l’artista, difficilmente ne uscirai uguale a come ci sei arrivato. Tuttavia, è un elemento, anche questo, che ho lasciato emergesse senza forzature, proprio perché non riguarda tutte e tutti nello stesso modo. E poi, manco a farlo apposta, Cave è l’unico che ho visto dal vivo più di una volta.

Altro aspetto curioso. Magari peccando in semplificazione ma da molti Cat Stevens- Yusuf Islam viene all’istante collegato alla sfera della religiosità. Vice versa meno immediato – come sottolinei – il collegamento con PJ Harvey: «la fede, se la si vuole leggere tra le righe di alcune delle sue composizioni, è presente come strumento di lotta, per affrontare le tribolazioni della vita. Allo stesso tempo è messa in discussione in modo provocatorio, posta come elemento di conflitto con se stessa.» Passare in rassegna i vari approcci ti ha spinto a riflettere su quale sia la forma di spiritualità che senti più tua o, come talvolta succede a chi scrive retrospettive, da ognuna ritieni di attingere qualcosa e in ognuna finisci per rivederti un po’?

La forma di spiritualità che sento più mia è vicina all’esperienza di Matthew Malley, che riporto nella bonus track. Pratichiamo la stessa meditazione. Il modo con il quale ci sono arrivata sicuramente mi spinge a rivedermi in ognuna delle esperienze di vita che ho raccontato. La ricerca interiore spesso parte da bisogni insoddisfatti, da momenti di crisi, da dolori laceranti, che fanno emergere domande, e la sete di risposte viene di conseguenza. La ricerca di un senso che vada oltre la materialità dell’esistenza ci accomuna tutti. Credo che il bello di un lavoro del genere sia anche questo: leggere e scoprire che abbiamo più cose in comune di quelle che possiamo immaginare con artisti e artiste straordinari.

Nella postfazione di Adriano Ercolani si legge: «come è possibile che il rock, genere figlio della “musica del diavolo”, vincolata per definizione a sesso e droga, colonna sonora della ribellione giovanile, abbia espresso alcune delle più alte vette artistiche della ricerca spirituale dell’ultimo secolo?» Il tuo testo è anche una risposta a questo interrogativo. Ma, prescindendo da ciò, focalizziamoci sull’associazione: dopo averci lavorato, su rock e spiritualità, ritieni sia più corretto sostenere che questa faccenda della musica del diavolo sia ormai del tutto superata o (come pare ragionevole) dall’inizio abbiamo avuto a che fare con una colossale – tenerissima, funzionale – montatura, perché da sempre la spiritualità ne ha rappresentato un fulcro? 

Parlare di “musica del diavolo” implica una connotazione religiosa: se credi al diavolo, si presume tu creda anche in Dio. Quindi una montatura che, a suo modo, riconosce alla musica una dimensione ultraterrena, che è stata nuova e sconvolgente per certi contesti. Per me naturalmente ha una connotazione spirituale che va oltre, ed è decisamente più sottile rispetto a questa associazione che suona piuttosto caricaturale. Come scrive Ercolani, il rock ha portato alla luce alcune delle più alte vette artistiche della ricerca spirituale dell’ultimo secolo. Una ricerca evidente – sempre citando la postfazione – «solo per chi è in grado di penetrare la superficiale fascinazione dello stile di vita rock’n’roll, sregolato fino all’autodistruzione, le cui radici si possono riscontrare in un fraintendimento ingenuo dei grandi santi patroni della ricerca eretica moderna, da William Blake ad Arthur Rimbaud».

In conclusione dieci vite, tra spiritualità e creatività, per dieci musicisti: un britannico, una statunitense, un canadese, una canadese, uno statunitense, una statunitense, un britannico figlio di greco cipriota e di svedese, una irlandese, un australiano, una britannica. Magari non dieci – io stesso avrei più facilità pescando all’estero – ma cinque musicisti italiani dei quali avresti piacere a indagare questa sfera?

Franco Battiato, Lucio Dalla, Fabrizio De André, Ivano Fossati e Nada. Ma anche Cristina Donà e tra i più giovani, invece, La Rappresentate di Lista, e Maria Antonietta.

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