Sapere, dubbio e tempo: l’umanesimo di Ivano Dionigi

by Felice Sblendorio

Contro la paura e l’ignoranza c’è un solo e scontato antidoto: il sapere. Lo sa bene Ivano Dionigi, uno dei latinisti più conosciuti del nostro Paese, intellettuale raffinato, fondatore e direttore del centro studi “La permanenza del Classico” e già Magnifico dell’Alma Mater Studiorum di Bologna. In un piccolo pamphlet, “Osa sapere” (Solferino, 96 pagine, 7.90 euro), l’accademico traccia un manifesto appassionato e critico per attraversare la buia notte che attanaglia le nostre democrazie. Conoscenza, dubbio, tempo: i pilastri da cui ripartire. bonculture ha intervistato Ivano Dionigi. 

Professor Dionigi, nel suo pamphlet “Osa sapere” scrive: “La prima difesa della democrazia è la difesa dell’intelligenza”. Le stiamo difendendo bene le nostre democrazie occidentali? 

Io non credo siano ben difese innanzitutto perché abbiamo perduto il senso delle parole, una parola come democrazia si è molto appannata ad esempio, e poi perché il nostro agire e il nostro pensare mancano di intelligenza. Intelligenza, che è una parola latina, deriva da intelligere: cogliere, leggere il dentro e la relazione tra le cose: due lacune gravi della nostra riflessione contemporanea. Oggi abbiamo pensieri corti, superficiali e manchiamo della capacità di mettere in relazione le cose: è tutto parcellizzato secondo le nostre prospettive individuali. L’incapacità alla lentezza e alla profondità ci sta facendo perdere la possibilità di osservare nell’insieme i fenomeni che ci attraversano. 

Chiama in causa la comprensione e la complessità in un momento di superficialità e false credenze. 

Lo diceva bene Spinoza: ci sono dei momenti in cui non c’è né da piangere, né da ridere e né da protestare, ma c’è bisogno di capire. E oggi c’è da capire, per citare il profeta Isaia, a che punto è la notte. Per rispondere mi viene in mente Gramsci quando parla dell’interregno: quando il vecchio mondo muore e il nuovo non è ancora nato, viviamo in una sorta di interregno nel quale avvengono i fenomeni morbosi più svariati. L’attuale presente credo sia proprio questo. È evidente che il vecchio mondo stia tramontando con le sue vecchie istituzioni, ideologie, strutture di pensiero e il nuovo mondo stia venendo alla luce con lentezza. In questa terra di mezzo personalmente credo serva una sintesi di visione del nuovo mondo che cominci con un richiamo alla responsabilità individuale. Questo è un momento particolare perché siamo tutti eremiti di massa, tutti connessi ma soli, tutti senza un senso di responsabilità collettiva. Vede: la mia generazione sul finire degli anni ’60/70, aveva tutto il vento che soffiava alle spalle: avevamo una certezza lavorativa, punti di riferimento ideali, sociali, politici. Quel vento, oggi, sbatte in faccia alle nuove generazioni. I nostri giovani non trovano identità e certezze, così si fanno un selfie per collocarsi, per riconoscersi. Se la mia aveva desiderato una società senza guide, padri e maestri, la generazione attuale è alla ricerca di una guida ma non la trova. Bisogna ripartire dall’impegno di tutti noi. 

Una grande mutazione del nostro tempo sono le migrazioni su cui lei si sofferma nel capitolo “Senza barbari, cosa sarà di noi”. In queste pagine esalta il modello di Roma, la pratica politica che assimila, riceve e trasmette tutto quello che è straniero. Quanto è figlia la nostra Europa dei popoli di quel modello?

La grande lezione di Roma è chiara. Non è una lezione etica e valoriale da prendere a modello, ma è una visione di realpolitik. Roma è stata grande e potente perché è stata numerosa e inclusiva. La sua storia, da Romolo a Caracalla con la cittadinanza estesa a tutti gli abitanti dell’Impero, è una storia di inclusione. La Grecia è stata conquistata con le armi, ma Roma si è fatta conquistare con le arti, ha creato un pantheon religioso multietnico non esportando una religione ma importandola. Quando Claudio disse che Roma era importante perché a differenza dei Greci i vinti non venivano umiliati o considerati barbari aveva ragione. Il loro ius soli e ius culturae non erano un gesto di pietas, filantropia o carità cristiana, ma erano un gesto politico. La nostra Europa più che uno spazio geografico, è una tradizione, un arcipelago culturale. Umberto Eco a risposta di quale fosse la lingua dell’Europa disse che era la traduzione, cioè una molteplicità di linguaggi. Oggi credo che questo nostro spazio culturale abbia dimenticato la lezione di Roma. Rémi Brague ha teorizzato che il modello culturale dell’Europa non era Gerusalemme, la tradizione ebraica o cristiana, ma era Roma, intesa come attitudine a ricevere, trasmettere e assimilare tutto ciò che le era straniero. 

Un modello distante da quello che viviamo oggi. 

Abbastanza, sì. Dico sempre che se oggi non si vuole adottare il messaggio illuminista che ci ricorda che siamo fatti di libertà, uguaglianza e fratellanza, o il messaggio evangelico dell’essere fratelli, almeno ricordiamoci di essere romani. Roma riconosceva nello stesso giorno un vinto come cittadino. Ora, se non riusciamo a riconoscere l’altro come uomo o come fratello, riconosciamolo almeno come cittadino. E se non lo facciamo per convinzione, facciamolo almeno per convenienza. I dati demografici ci sono contro. In una sua poesia, Kavafis scriveva: “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione, quella gente”. Ecco, una soluzione. Roma ci ha insegnato che includere, mescolare il sangue, è sempre la soluzione migliore per il perdurare delle civiltà. 



Auspica in queste pagine un nuovo umanesimo che riesca a coniugare la conoscenza del tempo, il grido del pensiero e una politica alta e sapiente che sappia governare i mutamenti in atto. Utopia o possibilità?

Il nostro dibattito pubblico, la nostra politica, è ridotta a dieci parole cadaveriche e lei comprende bene che con questa anoressia di parole, usate anche male, non si può far politica. Siamo tutti convinti che servano la tecnica e l’economia, globale e mondiale, ma poi ci ritroviamo una politica locale che balbetta e non riesce neppure a fare l’Europa. Oggi, in questo mondo al bivio fra opportunità e rischi, viviamo una dimensione politica e sociale tutta schiacciata sul presente. Credo che questo sia un male. Se impostiamo tutto sul nuovo, sul mai visto, sul mai sperimentato abdicando al noto dei padri, della storia, della classicità e del pensiero forse non si va troppo avanti. Ecco perché serve un nuovo umanesimo che accanto alle soluzioni e alle risposte della tecnica contrapponga delle domande, dei dubbi. Accanto a quelle scoperte servono le interrogazioni e le conoscenze del passato. Fondamentale è la riscoperta della dimensione del tempo che, a differenza dello spazio, ci proietta sia verso il passato, e quindi verso la memoria e la riconoscenza, sia verso il futuro, e quindi verso il progetto e la responsabilità. Noi siamo fatti di tempo. 

E di “provincialismo di tempo”. 

Ho ripescato questa definizione di Eliot perché noi oggi siamo dei provinciali di tempo, convinti che la vita appartenga al presente e a noi, mentre è un patrimonio che appartiene ai trapassati e ai nascituri. Le chiedo: possiamo pretendere di essere planetari per il web e provinciali per il tempo? Io credo di no. Oggi c’è la necessità di sedere sulle spalle dei giganti per guardare più lontano, ma se i giganti sono i capipopolo è davvero difficile avere uno sguardo lungo. I giganti oggi sono figure che invece di guidare il popolo come Mosè, stanno in mezzo al popolo e ne annusano gli istinti. Allora ritorna una domanda: chi è il vero politico? Secondo me è colui che conduce il popolo fuori dall’Egitto, che ha il senso del destino individuale del proprio popolo, che sta davanti e non in mezzo, scontando la solitudine e conoscendo più il crocifigge che l’osanna. 

Uno dei mali che individua in questo tempo critico è l’incuria delle parole. Platone sosteneva che parlar male fa male anche all’anima. Le nostre parole sono in pericolo? 

Credo che siano in pericolo perché attualmente le parole sono massacrate, usate male: la parola dignità è stata ridotta a un decreto, la politica, che è vocazione primordiale dell’uomo, ad un contratto di governo, la parola straniero identificata con un nemico. Nel nostro Paese il problema è lo scontro fra i cittadini della parola e i padroni del linguaggio. Oggi i cittadini della parola rischiano l’esilio perché è tutto ridotto a slogan, a battute. 

Per proteggersi dal vuoto e dalla leggerezza lei chiama in causa la scuola e l’università in una missione fra tradizione e traduzione. Non crede, però, che oggi queste istituzioni siano più dedite alla praticità della conoscenza che al suo valore sociale? 

In questo libro cito una lettera di Derek Bok, rettore di Harvard che ha scritto ai suoi studenti: “Se pensate di venire in questa Università per imparare un mestiere, state perdendo il vostro tempo. Noi non vi possiamo insegnare un mestiere che poi tramonterà, ma possiamo insegnarvi ad imparare, perché nella vita dovrete re-imparare continuamente”. Io non credo che l’Università e la scuola servano per insegnare un mestiere, bensì per trasmettere i fondamentali. La scuola dovrebbe formare dei cittadini e non degli inutili impiegati, perché in un mondo veloce bisogna avere la capacità di una visione: comprendere quello che è successo prima per tradurre quello che sta succedendo ora. Per ripartire bisogna curare il sapere e lo spirito di tutti. 

Dopo il crollo del Muro di Berlino, come teorizzò Fukuyama, si pensò subito a un finire della storia con l’inizio di un tempo di massima evoluzione civile, politica e sociale. Quella crepa, quel moto, si è riaperto?

Io credo che la storia abbia conosciuto anche momenti ben peggiori di questo. Il tempo in cui viviamo ci sembra più drammatico perché la connessione e la velocità, che ci permettono di essere informati su tutto, agitano in noi ansie e paure. Oggi non so se abbiamo toccato il fondo, ma credo non si possano ignorare le leggi della fisica: i corpi cadono ancora in basso e noi dobbiamo comprendere che così non si può andare avanti. Il rischio è quello di ridurci a quadrupedi; mentre noi siamo bipedi, con la posizione eretta, l’arte della parola che ci contraddistingue e la vocazione o “la condanna” al vivere in società. La guida per il futuro, che le giovani generazioni stanno già cominciando a seguire, credo risieda nel pronome “Noi”. Per raggiungere la meta, ha scritto Paul Eluard, bisogna arrivare “Non ad uno ad uno, ma a due a due. Se ci conosceremo a due a due, noi ci conosceremo. Tutti, noi ci ameremo”. Forse – e lo spero – andrà proprio così. 

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