Saro sogna di fuggire da Catania in “Un avanzo di troppi risvegli”, il romanzo di esordio di Valentina Morelli

by redazione

Uscirà il 16 ottobre per CasaSirio Editore Un avanzo di troppi risvegli il romanzo d’esordio di Valentina Morelli. Valentina è nata a Modena e cresciuta a Milano, vive a Genova da vent’anni dove lavora come project manager. Ha collaborato con la rivista letteraria Cadillac.

Saro sogna di fuggire. Da Catania, da quelle catene che non lo fanno respirare, dal rischio di diventare come suo padre e suo fratello. Allora Saro studia, e immagina il futuro assieme ad Agata, quella ragazza di cui è follemente innamorato e che prima o poi lo noterà.

A Milano un uomo senza nome sale su un treno. Ha i vestiti stracciati, le scarpe sfondate e una piccola sacca con dentro tutta la sua vita. Deve tornare a casa. Anche se non ha soldi, anche se non ha certezze. Anche se gli ultimi vent’anni li ha passati in carcere. Perché ha fatto una promessa, e non esiste nulla di più importante.

Due vite opposte e distanti. Due vite che sembrano doversi toccare per poi allontanarsi nello spazio e nel tempo. Due vite che ci ricordano come, alla fine, siamo sempre noi stessi contro il mondo che incombe.

Milano – qualche posto nella campagna toscana

Quell’uomo. Vestito dello stesso grigio dei pilastri, i bottoni come rivetti, vaga da ore in giro per la stazione. Lo noti quando si sposta, come un camaleonte che diventa visibile se cambia foglia.

Ora segue un tizio in divisa – braghe blu e scarponi da lavoro – che sale su un treno e issa sul predellino un bidone e un secchio. L’uomo osserva. La porta della carrozza si chiude con un clang. L’uomo aspetta. La luce negli scompartimenti si accende, da sotto la carrozza cola un rivo d’acqua. L’uomo prende a risalire il binario con passo misurato. Arrivato in cima al treno, si guarda attorno prima di salire. Si richiude la porta alle spalle, resta un momento immobile per poi infilarsi nel bagno gelido del treno e chiudersi a chiave. Schiena alla porta, occhi strizzati, inspira ed espira forte dal naso una volta, due, tre. Dallo zaino tira fuori un rasoio, un asciugamano che forse un tempo è stato azzurro, una saponetta consumata. Si toglie giacca, maglia, camicia, scarpe, calze, pantaloni e mutande, piega e appoggia tutto sopra lo zaino; in piedi davanti allo specchio si rade barba e capelli, già molto corti. Ripone il rasoio nello zaino, apre un filo d’acqua, bagna e insapona, a pezzi, ogni centimetro del corpo, magro che gli conti le ossa: lava e sciacqua la faccia e le orecchie, lava e sciacqua il collo, lava e sciacqua le braccia segnate da un groviglio di cicatrici; lava e sciacqua le ascelle, il petto, la pancia; si dedica ai piedi, uno per volta, alle gambe, una per volta, ai genitali e alle natiche, infine alla schiena. Per dove riesce, per come riesce. Chiude l’acqua e rimane in ascolto, nudo, la pelle d’oca anche in faccia: rumori di treni che partono, un fischio, un vociare lontano. Si rianima, sfrega la pelle con l’asciugamano logoro, il lavandino con la carta igienica, si riveste. Quando esce dal bagno, non una goccia d’acqua, non un pelo restano a tradire la sua presenza. Solo un vago odore di canfora.

Cammina carponi fino a raggiungere uno scompartimento, fa scorrere la porta, si arrampica veloce nel ripiano destinato ai bagagli e resta lì, sdraiato su un fianco, le braccia strette al petto, la testa sullo zaino.

Il finestrino inquadra i piedi dei passanti: mocassini lucidi e veloci; stivali bordeaux; scarponi da lavoro sotto un paio di braghe blu. Rumore secco della porta che si apre, vociare che aumenta di volume, metallo di porta chiusa. Passi pesanti sul linoleum. Braghe blu entra, svuota il contenitore sotto al finestrino. Gli basterebbe alzare la testa per scoprire l’uomo. Due passate di mocio lurido sul pavimento – odore di formaggio e muffa – e lo scompartimento si richiude.

I passeggeri iniziano a salire, riempiono il corridoio di voci e bagagli, cercano il proprio posto. Una donna carica di borse entra nel primo scompartimento e si leva il cappotto, spandendo nel corridoio un profumo di bucato. L’uomo, a meno di un metro sopra di lei, spalanca gli occhi, rabbrividisce, trattiene un conato; perde controllo e invisibilità, vacilla, si aggrappa al tubo d’acciaio del portabagagli, solleva il bavero della giacca fino a coprire il naso. Il ripiano cigola, la donna alza lo sguardo, apre la bocca come per dire qualcosa. Il capotreno passa rapido nel corridoio, il treno parte con un fischio.

La donna raccoglie rapida le sue cose, le borse, un sacchetto di carta che scricchiola non appena lei lo solleva, e sguscia fuori a passi lunghi, lasciando nello scompartimento un effluvio di magnolia e lavanda.

Finalmente, rumori e voci si calmano, le luci si spengono. Il vagone è delle ombre.

L’uomo si mette a sedere; si sporge un momento a guardare di sotto e scende dal ripiano. Si muove con lentezza, il corpo teso a percepire i suoni; si ferma davanti a uno scompartimento, ascolta, annusa; passa al successivo, a quello dopo ancora: un russare intenso e un odore di piedi e sudore sfuggono da una porta socchiusa. L’uomo entra e si infila nell’unica cuccetta vuota, sotto un gigante che penzola fuori branda e di fianco a un controfagotto. E così, piedi in testa e grugniti nelle orecchie, in quella che diresti la peggiore delle situazioni per dormire, l’uomo si stende: i lineamenti si ammorbidiscono, le braccia si rilassano e il respiro si fa tranquillo come il tutùn del treno nella pianura.

Le luci della città sono distanti, gli alberi sagome lungo i campi bui. Di tanto in tanto, un lampione illumina la faccia addormentata dell’uomo. A un tratto il treno rallenta; lo capisci dal ritmo diverso, più dilatato, del tutùn-tutùn. In lontananza, un vociare confuso e un tintinnio di metallo. L’uomo spalanca gli occhi. Il controfagotto russa più piano. Passi in avvicinamento, la voce ansiosa di una donna. L’uomo si gira su un fianco, raccoglie le ginocchia al petto. Rumore di chiavi, toni allarmati. Il treno rallenta ancora. Il controfagotto smette di russare.

L’uomo sembra una pietra nella fionda tesa.

– Venite, dev’essersi nascosto da qualche parte! – grida la donna.

L’uomo schizza fuori dallo scompartimento, “Ehi! Fermo!”, ma no, no che non si ferma, corre più forte, raggiunge la porta della carrozza, si volta un istante a guardare il controllore, la donna, il capotreno: “Fermo, Fermati!”. L’urlo scolora nel buio della porta aperta: il tutùn del treno è sempre più lento e lui, l’uomo che dormiva beato tra due piedi e un controfagotto, salta giù e scompare, ombra tra le ombre della notte, in un qualche posto della campagna toscana.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.