Una raccolta di brevi racconti, scorci di vita e avventure di viaggiatori alle prese con coincidenze, treni in partenza, ritardi e corse cancellate. È il nuovo libro di Alessandra Nenna, giornalista barese che ha pubblicato con Progedit Scusi il treno si prende alla stazione? mettendo insieme episodi e riflessioni durante gli anni del suo lavoro in un infopoint in una stazione ferroviaria.
La battuta diventa sin dalle prime righe il pretesto per una riflessione più generale, sulla corsa contro il tempo, su se stessi, sulla fretta, la meschinità e l’ottusità e che a volte lascia il passo a un barlume di speranza perché – come diceva Mankiewicz – ho sempre creduto nel buon cuore degli estranei.
Il libro potete trovarlo in tutte le librerie baresi, o su ordinazione in tutte le altre, e nei consueti circuiti on line, compreso il sito della casa editrice che lo spedisce in tutta Italia senza costi aggiuntivi.
Noi di bonculture l’abbiamo intervistata.
Alessandra il tuo libro è una raccolta di aneddoti curiosi e molto divertenti sul mondo del viaggiatori ma in realtà, andando più a fondo, ogni storia è un pretesto per una riflessione, un racconto più profondo sulle persone. Ci racconti come è nata l’idea di prendere appunti? E come è diventato un libro?
“I primi appunti sulle gaffes involontarie dei viaggiatori sono stati presi nel tempo e neanche ricordo chi, tra i colleghi, e quando, è iniziata questa ironica raccolta. C’è stato però un momento in cui, interrogandomi sul perché, con un lavoro da giornalista alle spalle, fossi capitata in un posto che ritenevo non rappresentare un mio percorso, la risposta è arrivata nella scrittura. Ho sentito quasi la necessità di iniziare ad appuntare piccoli aneddoti, mie riflessioni su brevi dialoghi avvenuti con i viaggiatori. Quando, durante il precedente lockdown ho avuto tempo in più da dedicare alla scrittura, ho pensato al suggerimento di una collega che mesi prima mi aveva per l’ennesima volta invogliata a mettere giù un progetto editoriale”
Il tuo è un punto di vista privilegiato in una stazione in cui passano centinaia di persone. Cosa ti colpisce di più, il cinismo o la maleducazione ostinata o la gentilezza?
Ci racconti se ti è capitato che qualcosa ti spiazzasse in positivo o negativo e che cosa?
“Al cinismo e
alla maleducazione estremi che pure puoi immaginare imperversano, non credo mi
abituerò mai, ma difficilmente offro la sponda perché crescano e si alimentano.
Nel mio lavoro e nella scrittura. Nei racconti del libro infatti vengono
piuttosto narrati episodi che mi piacerebbe accendessero una scintilla nel
lettore. Esattamente la stessa che ha attratto la mia attenzione. La
gentilezza, un apprezzamento al lavoro che svolgiamo, l’educazione, mi rendo
conto che sorprendono sempre (noi operatori e l’utenza) come se fossero queste
qualità il vero servizio e non un accessorio compreso naturalmente in quanto
offerto al pubblico. In negativo resto sempre colpita da chi rifiuta di essere
aiutato, da chi tra sé e gli altri pone una barriera. Immagino sempre siano
persone sole e ferite”.
Una
cosa che accomuna molti tuoi racconti è l’ansia di arrivare tardi, la corsa al
fotofinish come se fossimo tutti convinti, perdendo un treno, di mancare un
appuntamento con il destino. E’ un paradigma dei tempi moderni questo secondo
te? Una metafora della nostra vita?
“Grazie per
averlo notato perché mi ha fatto rendere conto di qualcosa che in effetti ho
descritto, ma di cui non avevo la visione d’insieme. È proprio come
dici. Siamo sempre tesi verso un momento successivo, fosse anche quello di
prendere un treno, un bus, un aereo. Affannati nel cercare di spostarsi il
prima possibile dal momento presente. Invece oggi il messaggio che si impone su
tutto e che giunge in particolare dalla cultura orientale (da cui molto
dovremmo apprendere) è che solo il presente ha valore. L’unico in cui possiamo
esercitare una qualche volontà. Mio padre, che oggi considero un illuminato, mi
diceva spesso: “Perché ti stai preoccupando? Pre-occupare. Occuparsi prima del
tempo.”
A un
certo punto del tuo libro con il pretesto narrativo di un ragazzo con
difficoltà che insisteva affinchè sulla scheda di valutazione ci fosse il suo
nome “perchè voglio che si sappia che sono io” tu parli del fatto che
lo “sforzo ha una sua ricompensa” e che il coraggio qualche volta
inizia dal voler impugnare una penna. E’ un’immagine molto potente questa ma tu
ci credi davvero?
“Sì, credo fermamente che la vita ci restituisce nella misura in cui abbiamo dato. Forse non ci arriva dalla stessa direzione, ma una ricompensa c’è sempre. Tutto quello per cui ci si impegna, torna. Se non avessi deciso, un anno fa, di aprire un blog e metaforicamente impugnare anch’io una penna, forse adesso non starei rispondendo alle domande sul mio libro di esordio. A volte bisogna solo avere il coraggio di iniziare.”
Tu nasci giornalista. Cos’è per te la scrittura e come ti ha cambiato la vita?
“Ho iniziato a
rendermi conto che la scrittura era una parte essenziale e che reclamava un suo
spazio quando ancora facevo la ragioniera, oltre quindici anni fa. Nel
rispondere a mail professionali non mancavo di corredarle di parentesi a volte
ironiche, a volte di spunti di riflessione personali. Erano diventate una
specie di marchio di fabbrica al punto che qualcuno chiedeva di parlarmi dal
vivo sperando di ritrovare lo stesso guizzo. Ho iniziato a desiderare di
portare questo piacere che provavo nel cercare le parole giuste ad altri ambiti
e ho mollato quel lavoro per iscrivermi all’Università. Il giornalismo l’ho
incontrato lungo il percorso e ho compreso che era un’opportunità per scrivere
un po’ ogni giorno, senza trama, né finale, come diceva Checov. E senza fretta,
aggiungo io”.
C’è
un altro episodio molto tenero, quella del parrucchiere. E anche qui c’è
quest’uomo, malato terminale con cui scambiate alcune battute ed è un pretesto
per parlare della sospensione del tempo. Ci sono luoghi in cui anche le
battaglie con la morte si sospendono. Sono i luoghi di arrivo e partenze,
luoghi che la letteratura ha scelto e abitato
spessissimo.
Tu che ne pensi?
“Anche i
supermercati, meno fascinosi forse tra una costoletta di maiale e il latte
parzialmente scremato, danno questa idea del tempo sospeso. Un tempo in cui
pensiamo di essere protetti perché niente di male potrebbe accadere. Proprio
come quello in cui ci si immerge nella lettura. Se ci pensi non è vero perché
quello che fa davvero la differenza è la predisposizione mentale. Semplicemente
in alcuni luoghi la nostra mente si distrae, si rilassa e smette di pensare
continuamente a come sopravvivere. E si gode il momento per quello che è. Se
fossimo sempre immersi in questa presenza sapremmo cosa significa sentirsi
eterni, immortali”.
Alessandra
immagino siate rimasti fermi in questi mesi, che impressione ti fa il deserto?
Che pensi del futuro?
“Il deserto viene spesso associato al sentimento di solitudine, assenza. Forse il gioco più affascinante che ci offrono le parole è quella di provare a sfidarle, cercando di aprirsi a nuovi significati e rimandi. Il deserto infatti a me spinge a pensare a un vuoto da riempire, anche a quello dell’anima, con la possibilità di indagarsi e trovare qualcosa di inesplorato. Siamo sulla soglia di un deserto epocale, in cui abbiamo perso alcune libertà e potremmo perdere altre concretezze, ma è come per le parole. Credo sia necessario iniziare a pensare a un futuro dove al progresso (inevitabile) della tecnologia, l’umanità scavi nel deserto comunicativo che la avvolge da tempo e ritrovi i significati di cui si sostanzia: solidarietà, comprensione e indulgenza verso gli altri. Non lo dico io, lo dice il dizionario”.
