Siamo magnitudini di stelle: Nova, il luminoso e intenso nuovo romanzo di Fabio Bacà

by Giammarco Di Biase

Si potrebbe leggere il nuovo luminoso romanzo di Fabio Bacà ascoltando John Martyn e il suo Small Hours. Fingersi parti di mondo, si potrebbe essere fiduciosi panteisti. Praticare ginnastica leggera e avere un portamento zen. Unire energie come endecasillabi in scomparti del corpo come in un testo poetico. Massaggiare tra le pagine, scoprire un’energia scarica, ricompensare il corpo, spalla destra e spalla sinistra, rigonfiarlo di natura, restituirlo alla natura. Scoprire l’energia delle orbite, stancare retina o far riposare il petto e il diaframma.

Ma la vera grandezza di Bacà, della sua seconda opera Nova, Adelphi 2021 (come della prima Benevolenza Cosmica), è che mentre lo si legge puoi ascoltare Islands dei King Crimson o elevarsi a qualcosa di più oscuro anziché mistico. Ascoltare i Pantera, i The Smashing Pumpkins, il testo resterebbe sempre lo stesso, la lettura intatta sempre copiosa, fluviale: niente accade a Nova se lo si legge sopra Bach o gli ACDC.

Questo perché tutte le parole di Fabio Bacà sembrano restituirci tecnicismi come se egli stesso fosse il Dottor House della parola. Ogni settorialità gli apre le porte, emerge un luogo sempre diverso della parola, nei suoi libri che di rimando sono specie da studiare.

Uno che ama leggere con troppa eloquenza il vocabolario per percuotere con una frusta didattica severa le pagine scarne e americaneggianti (piene di inezie dove l’invisibile è essenziale soprattutto nei dialoghi) di DonDelillo di Rumore Bianco, vivisezionare vocaboli e rifarsi alla letteratura americana di Wallace come uscito da un racconto de La ragazza dai capelli strani. Un acume nella terminologia da farti sbiancare anche i documentari sul crollo di Wall Street, i docufilm sui serial killer intrecciati, e le docufiction sugli effetti collaterali dell’economia capitalista di Moore (capolavori dove mille parole si usano per dire denaro).

In Benevolenza Cosmica, riscoperto molto (moltissimo) nella pandemia, nei social, negli amplessi isterici di qualsiasi cultore di libri e di reel su Instagram, il protagonista Kurt O’Really, sembra essere fortunato su tutto, talmente tanto da sentirsi sfortunatamente fortunato.

La vita gli vuole bene, gli dà il meglio, così tanto che ad un certo punto il karma diventa rigurgito, un’attesa al dolore, un rutto ballerino, un riscatto al contrario.

Il finale ironico, pregevolmente infantile, smaccato, basso e miseramente alto proprio perché i protagonisti di Fabio Bacà pretendono solo dalla vita di atterrare con entrambe le gambe intere senza spezzarsi, senza spaccarsi fiato e unghia.

La loro condizione nelle trame è un sentimento speciale di unicità, una stella, una fortuna sempre dalla loro parte, un potere sempre inespresso, che loro non hanno mai chiesto nella loro saporita vita insapore, grigia eppure piena di bianchi da poter colorare, quando vogliono loro, senza audacia.

Saporita perché si muovono senza conoscersi a fondo, senza essere messi mai alla prova. Mangiano un piatto che da sempre per loro è gustoso perché è l’unico che mangiano, insapore quando scoprono altre pietanze, quelle pericolose e più buone: quelle che rigettano la quotidianità suprema che fa forza sull’intelletto, sui cuori, che forza finalmente la coscienza, che ingravida uomini di danno e esperimento.

Prendi due uomini, il primo Kurt e il secondo Davide, di questo libro bellissimo candidato al Premio Strega, che è un neurochirurgo con figlio in amore come un fiore nell’iperventilazione armonica dell’impollinazione, con moglie logopedista, moglie perfetta, bella, intelligente e simpatica che balla da cani come unico difetto. Prendi Davide, questa vita armoniosa in una Lucca estiva, borghese e dove (addirittura) si fa un fracasso da open bar eterno di notte.

Prendi i due uomini delle sue due opere, le loro vite parallele. Adesso spremili, crea una congettura su di loro: devono essere messi alla prova, spupazzati di fortuna e di violenza.

Devono rifarsi una vita, devono svegliarsi.

Ma Fabio, Fabio Bacà forse non è neanche d’accordo su quello che fanno le stelle, questa luminosità, Saturno che può galleggiare, una Supernova che irradia e spazza via stelle più piccole. Forse Bacà è spinto da una forza dentro di lui a cui egli stesso dice di no: i suoi personaggi non vogliono espiare sistematicamente cantieri bui della loro coscienza, con annesse porte chiuse a chiave.

Poi allo scrittore gli prende questa cosa, i miei protagonisti sono cantieri?

Costruiscono per il senso stesso del termine qualcosa che sta per cominciare, qualcosa che forse però non si compierà mai del tutto, una costruzione senza necessità di fine (proprio come i cantieri italiani, più quelli incompleti e asciutti dal sole che quelli vittoriosamente finiti), un giro su se stessi che siamo sicuri rivoluzioni e non torni dove si era partiti da principio vittime solo di una spolverata autunnale?

E’ l’avventura di Davide, vorticante di potere, uomo misero che non ha le forze per difendere sua moglie da ripercussioni di un ubriacone: gli si apre un fenomeno, una stella è dentro di lui, si illumina, è stato sempre un codardo? Un buono? O un buono a nulla? Qual è la sua educazione siberiana? Far volare piccioni o darle di sante ragione a chi sfratta la sua tranquillità ad un semaforo verde già da tempo?

Davide è fermo, tranquillo! -Davide-, dice Bacà -il semaforo è verde?

Che vuoi fare? Restare lì, o essere una stella che sfreccia oppure nella sua grandezza rimanere ad acquisire forza ferma?

Fabio Bacà è uno scrittore che freme dalla voglia di usare termini nuovi,la sua narrativa riutilizza la scienza della parola: i suoi termini in un’intera frase sono oggetto di ricerca, sono microscopi d’avanguardia tra le righe nel buio siderale dell’immenso.

I suoi libri sono glossari sempre aperti ad esposizioni e nuovo senso. La sua scrittura è vivisezione al capolinea del reale per usare di nuovo una parola e restituirle milioni di freschezze.

La parola novizia entra in un nuovo circuito, una nuova coppia di bellezza tra un termine un altro, un suono che restituisce un pianeta che credevamo di conoscere eppure che adesso ascoltiamo con una nuova armonia dei sensi.

La parola è una cometa, si impossessa degli occhi, riesce a essere attaccata al lessico e ad attaccare la grammatica stessa: si sposta nelle sclere e nei lobi con la potenza di un cosmo che si rivolta e crea.

C’è un grande universo, in Fabio Bacà, quello della sperimentazione, quello della tecnica, che in Italia è un fuoco d’artificio che si è spento tempo fa.

Come i protagonisti del suo mondo tra miliardi di anni e la perdita della luce del sole ha conquistato già altri mondi sintetici con i suoi usi e la sua dialettica, che ancora non conosciamo o che dobbiamo creare plasticamente nell’etere prima dell’estinzione.

Il linguaggio di Bacà è narrativa dell’avvenire, è estrema comunicazione senza colore e lignaggio. Un’asserzione nascosta, atmosfera satura di lettere, un’inflazione della lettura che il lettore fa, sempre di meno rispetto alle parole, sempre infuocate nel capirci il senso.

Si arriva stanchi quanto si sono spesi così tanti neuroni per una singola storia?

Leggere Fabio Bacà e Nova ti rende instancabile, ipercinetico, rasentando la gola: suono gutturale come in una fonetica rauca.

E’ uno studio su come si scrive bene anche il pensiero superficiale più superficiale, è la legge di chi pensa ad una parola e la fa brillare, innesco di splendore.

Nova come Benevolenza cosmica sono lo stesso potere che inasprisce ma risveglia Davide, il secondo personaggio della narrativa di Bacà: quella violenza, quello scorticare i confini del lessico come di un corpo per riportarlo ad una genesi.

Ci ammazzerà al collo di stanchezza? O ci farà meditare?

Sicuro è che i lettori per Bacà sono stelle, pronte a splendere come luce incandescente.

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