“Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro” di Pietro Del Soldà e l’amicizia aristotelica: «La philia è il cemento della polis»

by Vito Alberto Lippolis

«Anche l’anima, se vuole arrivare a conoscere sé stessa, deve guardare fisso in un’altra anima, e in particolare a quella parte di essa nella quale dimora la virtù dell’anima, cioè la saggezza, oppure deve guardare a qualcos’altro al quale questa parte dell’anima possa per caso assomigliare» dice Socrate in uno dei passi più frequentati dell’”Alcibiade Maggiore”.

Sulle ali degli amici: Una filosofia dell’incontro” (Marsilio, 152 pagine, 16 euro) di Pietro Del Soldà è un tentativo di rischiarare cosa significhi “guardare fisso in un’altra anima”, perché abbiamo così tanto bisogno degli altri e come possiamo costruire relazioni significative. bonculture, in occasione della sua partecipazione ai Dialoghi di Trani in programma dal 15 al 20 settembre, ha intervistato Del Soldà, autore del saggio e voce di “Tutta la città ne parla” su RaiRadio3.

Abbiamo costruito una società che ci tenesse abbastanza distanti gli uni dagli altri perché non ci ferissimo vicendevolmente: questo però ci ha isolati e resi infelici. È davvero così? Siamo davvero così soli?

Io penso che più che aver costruito una società in cui le persone sono separate tra di loro, più in generale viviamo in un mondo in cui grazie al cielo si è sviluppata e rafforzata un’idea di persona come individuo con le sue prerogative, i suoi diritti e la libertà – che, almeno sulla carta, vale per tutti – di realizzare i propri sogni. Questo è il cardine diciamo delle democrazie liberali nelle quali abbiamo la fortuna di vivere. Per vedere quanto è raro questo privilegio anche nel mondo contemporaneo basta guardare alle immagini che arrivano dall’Afghanistan in questo momento.C’è però un’altra faccia della medaglia: questo grande progresso e avanzamento in termini di libertà ci ha reso sì più liberi, ma anche più soli, nella misura in cui noi consideriamo la felicità come una sorta di obiettivo personale rispetto al quale le altre persone costituiscono o dei temporanei compagni di viaggio con i quali percorrere magari un tratto del cammino oppure, peggio ancora, degli avversari, dei competitor. Oppure ancora c’è una terza dimensione in cui noi rileghiamo gli altri che è quella della performance, che si lega ovviamente alla precedente: la volontà di eccellere presuppone gli altri come una sorta di pubblico che sta lì a osservare la nostra esibizione personale. Da questo punto di vista i social network hanno enfatizzato il problema: sui social noi tendiamo a caricare, a pubblicare, a condividere pezzi filtrati della nostra esistenza selezionati, rispetto ai quali gli altri – siano essi amici o follower – sono rilegati al ruolo di pubblico.

Sembra, insomma, che il quadro sia già abbastanza affollato. Possibile non si trovi un amico tra tanti competitor, tra tanti spettatori?

Il problema è che questi rapporti spesso non arrivano al nucleo della nostra esistenza, cioè viene meno cioè la possibilità di avere dei rapporti autenticamente coinvolgenti. L’idea greca di philia – che è qualcosa di più della semplice amicizia – presuppone invece una messa in comune delle cose più preziose che abbiamo con gli amici. Aristotele dà alcune definizioni formidabili della philia, tra le quali il fatto che si tratti di un mettere in pratica la felicità, cioè gli amici insieme non è che si divertono, passano insieme le nottate, le serate, il tempo libero: insieme fanno la cosa più importante che possono fare nella vita, cioè realizzano l’uno il bene dell’altro in un continuo processo di reciproca conoscenza, rispecchiandosi l’un l’altro. Questo rispecchiarsi implica non solo un’attività conoscitiva individuale, ma anche qualcosa che va oltre la vicenda privata: la philia, dice Aristotele, è il cemento della polis. Così, dice ancora Aristotele, i saggi legislatori sono quelli che tengono la philia – l’amicizia tra i concittadini – in maggior conto che la giustizia –cioè il rispetto delle leggi da parte dei singoli.

Lei rifiuta tanto il modello hobbesiano quanto la retorica dei nuovi comunitarismi e propone piuttosto un modello eudaimonistico – volto alla felicità piuttosto che alla sicurezza o alla virtù – che abbia al suo centro una rete di individui che conoscono e governano sé e il mondo attraverso l’amicizia. L’amicizia di cui parla è una disposizione d’animo innata o una pratica da svilupparsi, e come?

La dimensione dell’amicizia è, nella lezione greca, il modo di raggiungere questa felicità, intesa come, nelle parole di Aristotele, «un bene architettonico». La felicità non è quella singola cosa, quella relazione d’amore, quel risultato professionale, quella casa, quel bene singolo, quella capacita: no, la felicità non è mai identificabile in un singolo oggetto, ma è la composizione – secondo un ordine che è unico e peculiare per ciascuno di noi– dei nostri desideri. Una specie di direttore d’orchestra, se vogliamo dire, della pluralità di voci che ciascuno di noi ha. Ebbene, per raggiungere questo obiettivo, la via è quella della philia.La philia è da un lato è una tendenza innata connatura all’essere umano (per quanto l’innatismo e l’idea di natura umana sono concetti oggi da maneggiare con molta cura), dall’altro però sta a noi corrispondervi o meno attraverso una scelta di comportamento, attraverso un ethos, che possiamo adottare oppure no – quindi corrispondendo alla nostra natura e avvicinandoci così alla felicità oppure, al contrario, andando contro alla nostra natura, relegando l’amicizia nel mero divertimento o in rapporti sminuzzati, frammentati, che non ci coinvolgono per intero. La mancanza di quei rapporti coinvolgenti a cui pensano Platone e Aristotele con la parola “philia” diventa un ostacolo insormontabile alla felicità, anche per noi oggi.

Socrate è amico degli Ateniesi, ma questi non sono amici di Socrate: nell’Apologia anche Socrate passa dal chiamarli “giudici” a semplicemente “uomini”: è una risposta infantile, un passo falso o è giusto che anche l’amicizia si possa revocare? Come si può essere certi in ogni momento che la simmetria che l’amicizia richiede sussiste davvero?

Arrivato al punto del processo, Socrate si rende conto che il tentativo di dialogo coi suoi concittadini è ormai naufragato e non può che constatare il fallimento di questo tentativo e rivolgersi al gruppo di amici che ancora gli rimangono attorno.Certo, è paradossale che, come si vede nel primo capitolo, sia così duro e spietato proprio nei confronti di questi amici sofferenti da sembrarci incomprensibile e crudele, oltreché privo di qualsiasi pietà per loro che vorrebbero solo salvarlo e non capiscono che lui non può andare in esilio, giacché lasciare la polis significherebbe rinnegare sé stesso.

Il punto è che i compagni stessi non sono, ancora, all’altezza della vera philia incarnata da Socrate: dovrebbero invece essere felici della sua sorte, perché con la morte Socrate tocca e supera ogni ostacolo alla piena coincidenza tra filosofia e vita. Queste poi sono immagine scritte, quello che conta è il lettore, anche per Platone. E Platone ci sta mandando un messaggio: l’amicizia è una roba impegnativa che implica anche la capacità di accettare la sofferenza, perché non è che l’amico significhi colui che mi tiene in vita e m conserva, mi salva da ogni circostanza; amico è colui che condivide la felicità nel raggiungimento della conoscenza di sé, che è ciò che Socrate tocca per la prima volta dopo il momento in cui muore. Socrate non solo non rinnega l’amicizia, ma la concentra sugli amici e dà a noi, lettori dei dialoghi di Platone, una grande lezione: gli amici sono qualcosa che vale in estremo, ancor di più della stessa vita.

Nel libro, pagine molto interessanti sono dedicate alla radio e alla parola viva e dialogante. Sicuramente le persone avvertono il bisogno della parola viva– come testimoniato tra l’altro da Twitter che, in periodo di pandemia (il libro di Del Soldà è uscito nel 2020, prima della pandemia, NdR) ha aggiunto la possibilità per i propri utenti di parlarsi a viva voce in apposite stanze virtuali – ma non c’è forse anche il rischio che si venga a creare, per dirla platonicamente, una grande disarmonia?

Anche il successo dei podcast (che pure non hanno nulla a che fare con il dialogo) rappresenta un po’ il bisogno della parola nuda e pura. La comunità di Radio Tre è stata capace di restituire un’atmosfera di comunità e di quel fluire della parola, come diceva Gadda, da libero cittadino a libero cittadino, senza gerarchia, senza l’idea che tu sei quello che fai, che dispensi sapere attraverso le onde radio al pubblico silenzioso che sta lì a ricevere e ad ascoltare. In questo senso, mi sembra che il vecchio mezzo radiofonico, anche rispetto agli stessi social, possa rappresentare un grado di philia maggiore.

Lei scrive che «Il tempo dell’amicizia, come il tempo della diretta (radiofonica NdR), è un eterno presente.»: non le sembra che ci sia già un po’ troppo presente?

Mutuato dall’immaginario nietzschiano, l’eterno presente a cui mi riferisco è un presente capace di assorbire tutto quanto, con la sensazione di essere tutti interi nel momento in cui si sta vivendo, senza lasciar nulla fuori dalla situazione in cui ci si trova, mettendosi interamente in gioco. Tanto il futuro come aspettativa quanto il passato come memoria non costituiscono qualcosa che sporge fuori dall’orizzonte del presente, ma che agisce al suo interno: significa essere coerenti con sé stessi, con ciò che si è stati e con ciò che si vorrà essere – quell’intensità del tempo presente che non ha nulla a che fare con quel presentismo frammentato dei nostri tempi e della nostra comunicazione che, invece, al contrario è un succedersi continuo di cose che sfuggono via – altro che eterno – sono la mancanza perenne eletta a sistema.

Oggi c’è qualcuno che si cura della vera philia e non solo dell’amicizia disimpegnata?

Credo che oggi valga ancora l’insegnamento dell’immagine greca della philia: non perché la dobbiamo imitare né tanto meno perché possiamo in qualche modo pensare di piegare una polis che è ormai polis globale alla logica della philia, piuttosto perché rimane valido il messaggio politico sotteso. Penso a quello di tanti ragazzi nel mondo che hanno a cuore il rapporto con la natura e con l’ambiente in maniera nuova e diversa in qualche modo contengano in sé delle tracce di quella philia perché c’è al fondo – anche, io credo, dell’ambientalismo dei ragazzi di Fridays for Future – una logica di cooperazione, che non vede il mondo esterno come una riserva da saccheggiare per fini solamente umani, con un’etica del limite che non è l’etica della rinuncia, ma della misura e della cooperazione e della condivisione.

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