“Tenebre su Kreuzberg”, un estratto dal libro di Miron Zownir

by redazione

Il fotografo e regista Miron Zownir, uno dei più radicali e importanti fra i contemporanei, torna alla letteratura con un noir folgorante, corredato da una selezione dei suoi scatti berlinesi. In uscita per Milieu Edizioni “Tenebre su Kreuzberg” parte da un bicchiere di whisky fracassato contro il muro e le schegge di vetro che gli pugnalano la gola: nello specchio, Nick si guarda il collo gocciolante di sangue finché non perde conoscenza. Ha tentato il suicidio o qualcuno, forse, ha cercato di ucciderlo? Come nelle sue fotografie, anche nella scrittura l’attenzione di Zownir è tutta rivolta agli emarginati della società: irrisolti e dilaniati da conflitti interiori, si trascinano alla ricerca di qualcosa che non riescono neppure a identificare fino ad allontanarsi irrimediabilmente da sé stessi. L’allucinazione assume i connotati del sogno: realtà, crisi psichica e dimensione onirica conflagrano quindi in una narrazione che diviene una spirale di follia. bonculture anticipa un estratto del libro.

Con i capelli lunghi e unti e la giacca di pelle rancida sembrava uno di quei tipi degli anni Settanta. Un fenomeno da baraccone, o un hippie dei fumetti di Robert Crumb. Quando gli sfigati erano ancora considerati “in”, interessanti e socialmente accettabili, e ogni editore non vedeva l’ora di trovare uno scrittore che fosse più ubriaco di Charles Bukowski. Ai tempi in cui i tossici brontoloni e gli omosessuali fantasticavano e chiacchieravano per ore senza mai arrivare al punto e venivano comunque compresi da tutti. Quando la camicia strappata di uno pseudo-poeta contava più dei versi di Goethe. Quando qualsiasi pazzo con uno pseudonimo inglese poteva diventare un grande industriale come i Thyssen e i Krupp, o un giornalista come Henri Nannen. E ogni delinquente era un potenziale ribelle se inseriva nel proprio vocabolario «hey, amico», «wow» o «fanculo». Quando mandare all’aria la propria vita significava diventare un profeta, senza dover esprimere un solo concetto. Quando “motivazione” era una parolaccia e “ambizione” un segno di ottusità.

Nick voleva chiedergli se trovava ancora bella la musica beat. Ma il tipo gli dava davvero sui nervi. Se ne stava seduto lì come un fottuto asceta su un treno sbagliato che non portava da nessuna parte. Muto e offeso dal fatto che uno come lui non fosse più richiesto di quei tempi. Nick aveva familiarità con quella condizione. In fondo anche lui viveva nel millennio sbagliato, si irritava con facilità, ovunque si sentiva fuori luogo, aveva un’opinione diversa su tutto e si percepiva di gran lunga sottovalutato.

Distolse lo sguardo e tentò di tenere a bada l’irritazione. Considerò che sarebbe stato più fortunato se avesse sfruttato a proprio vantaggio la magia del fallimento, interpretato il ruolo dello sconfitto e commercializzato la propria frustrazione. Avrebbe potuto creare un’opera che magari sarebbe caduta nel dimenticatoio, e tuttavia gli avrebbe concesso di vivere e godere di ogni tipo di perdizione.

Il nostro tempo è l’ultimo degli ultimi, una corsa a vuoto verso il nulla, pensò Nick.

Sfilò il telefono dalla tasca e immortalò il bicchiere di birra mezzo vuoto, per infastidire l’hippie.

A quelli come lui non piacciono, si disse. E non piacciono nemmeno agli Yuppies le mie foto scadenti. Un tempo però le avrebbero apprezzate tutti, persino Andy Warhol. Un tempo tutti quelli che volevano esprimersi diventavano di moda. Adesso invece milioni di persone fotografavano le lattine di Warhol, ma nessuna di queste era mai finita al MOMA.

Nick quasi si strappò il colletto dalla frustrazione. Scolò la birra e ruttò in faccia al tipo.

«Erano davvero una merda come si dice, i Settanta?»

«Non lo so, io sono nato negli Ottanta».

«Non dire cazzate», replicò Nick. «Sembri uno stupido hippie».

«In realtà sono insegnante di karate. Mettilo in conto, se cerchi rogna».

Nick andò verso l’uscita e strizzò gli occhi guardando la strada. Il solito ottenebramento delle notti brave era troppo forte per lui e la dose giornaliera di luce di cui aveva bisogno la trovava in un videogioco qualsiasi, nelle bettole o scattando foto con il suo telefono. Per un attimo pensò di tornarsene a casa. Ma non si addormentava mai prima di mezzogiorno e detestava i sogni che si fanno nel dormiveglia. Doveva essere sempre stremato, rintronato, perso prima di poter strisciare a letto e intraprendere il lungo viaggio di ritorno alla realtà dell’ineluttabile vita quotidiana. E a questo si aggiungeva che starsene sdraiato a scaldare la schiena di sua moglie con l’alito alcolico fino a quando lei svegliasse, non era una bella prospettiva.

Rabbrividendo prese dalla giacca gli occhiali da sole e se li infilò. L’aria era gelida e tirò su il colletto della camicia. Non aveva più voglia di bere, ma quali erano le alternative? La migliore sarebbe stata tornare indietro, sputare nella coca-cola dell’hippie, fotografare la sua faccia brufolosa e proiettarla sul muro di fronte, su cui un anarchico aveva scarabocchiato GERMANIA CREPA.

Anche per me potrebbero crepare tutti, pensò. Non solo i tedeschi.

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