“The Chain”, il caso letterario di Adrian McKinty con la “Catena” da film americano

by Francesco Berlingieri
thechain

Adrian McKinty
The Chain
(Longanesi, 341 pagine, 19,50 euro)

I casi letterari interdicono.
Divampano che, di solito, sei altrove, in tutt’altre faccende affaccendato. E, approfittando della tua distrazione selettiva, sono già sulla bocca degli altri. E sulle riviste. E sui quotidiani online. C’è già la fascetta che annuncia la tiratura, le copie vendute, il numero progressivo della ristampa. C’è già l’autore importante che s’è irrimediabilmente pronunciato.

I casi letterari ti costringono a fare i conti con ciò che realmente desideri da un libro.
A chiederti se davvero vuoi leggerne uno. Se sei pronto.
In questo caso, è stato Don Winslow. E chi mi conosce sa quanto stimi Don Winslow.
A proposito di The Chain ha scritto che è “fenomenale”, “un capolavoro di suspense” e che, addirittura, l’ha terrorizzato. E per terrorizzare l’uomo che ha descritto le torture dei cartelli messicani e colombiani – ho pensato – ce ne vuole.

Ho cercato Adrian McKinty su Wikipedia. Ho letto che è nato a Belfast. E ho chiuso la scheda. Già convinto. Questi maledetti irlandesi hanno contaminato il mondo delle lettere come e peggio delle serie di Netflix! C’ho messo qualche giorno, leggendo prevalentemente di notte e a colazione.
E devo dire – e dico – che boh.

Mi spiego un po’ meglio: la storia è di quelle valide, vincenti, perché si muove sul crinale dell’imponderabile, dell’imprevedibile e dell’assurdo. Una donna divorziata che si reca ad un preoccupante appuntamento dall’oncologa, in macchina su una di quelle strade a scorrimento veloce che – nel nostro immaginario colonizzato – possono esistere solo tra NY e Boston. Sull’immancabile pickup. Nell’immancabile autunno del New England. Una telefonata. Utente sconosciuto. Sua figlia è stata rapita ad una fermata dello scuolabus. Così, senza un motivo specifico. E non per soldi. Ma per alimentare la Catena. Che chiede sì un riscatto in Bitcoin – perché va bene che non è per soldi, ma uno non rapisce solo per la gloria! – ma soprattutto di alimentare la Catena stessa. Se Rachel vuole riavere la sua Kylie, deve sequestrare un altro bambino. E avvisare la famiglia di quest’ultimo che dovrà fare altrettanto. Solo a cose fatte, riavrà la sua. La Catena funziona così. Come quelle di Sant’Antonio nell’Irlanda dell’autore. Come nei sequestri in Messico che tanto devono piacere a Winslow. Niente polizia, niente giornalisti, niente federali. Non si sgarra con la Catena. Vincente, si diceva. Avvincente.

Il lettore si immedesima con lo sbandamento, lo sconcerto, lo sconvolgimento della madre. Poi finisce, con lei, per adeguarsi all’idea di non potersi limitare al ruolo tutto sommato comodo e abituale della vittima, ma si tuffa nell’avventura del divenire carnefice, dell’infliggere gratuita sofferenza ad un altro nucleo familiare. Il lettore dipende dalla linearità della scrittura. Dal fatto che, in breve tempo, si finisce per pensarla come Rachel. E il caso letterario scorre via che è una bellezza.

L’inghippo, per come la vedo io, fa capolino nel momento stesso in cui il nostro amico autore deve chiuderla, una storia del genere. Detto tra noi, a mo’ di spoiler, trovereste davvero insopportabile un caso letterario in cui – alla fine – la storia va storta e non c’è alcun lieto fine? O, meglio ancora, una storia dove l’ordinarietà dell’accettazione riprende il sopravvento evitando l’uso di mitragliatori d’assalto maneggiati con perizia da casalinghe fino all’altro ieri impegnate a infarcire il tacchino del Ringraziamento?

Io, vi dirò, l’avrei di gran lunga preferito. Perché McKinty sarà pure irlandese di nascita. Ma The Chain diventerà a breve un film americano. Di quelli che, alla fine, scuoti la testa e pensi: “Che cavolata!”. Checché ne dica Winslow. O chi ha foraggiato il caso letterario.

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