“Un giorno di questi” di Ciriello e una domanda: dov’eri quando la camorra era in guerra contro gli abusivi della nera?

by Francesco Berlingieri

Marco Ciriello
Un giorno di questi
(Rubbettino – 165 pagine – 14 euro)

“Allora come adesso: Napoli era piena di canaglie, e io ero una di loro. C’erano crepe, irregolarità, e un solo grande orizzonte: Raffaele Cutolo. Erano gli anni Ottanta, e cominciavo a fare l’abusivo di nera”.

L’incipit del primo capitolo, affrontato con l’entusiasmo che si deve a certi libri fortunati, quelli accolti dal lettore con la smania feroce di ciò che deve essere fatto. E nonostante il sonno che avanza in fitte schiere, come un nemico che – più prima che poi – ti stana. Riletto al mattino, come primo pensiero. L’intero primo capitolo.

E riletto ancora, per un totale di tre volte. Fino alla familiarità. Perché c’è qualcosa di intimo nella descrizione della redazione del Giornale Piccolo e di quegli anni napoletani che non puoi non avvertirlo. E lasciarti sedurre dal susseguirsi di periodi e virgole e due punti. Qualcosa di passato e non trascorso. Qualcosa di finito ed indefinibile.

Ho conosciuto Marco Ciriello con Maradona è amico mio, pubblicato da 66thand2nd. E mi è parso da subito uno che con la costruzione della frase ci sa fare. Uno di quelli che in una frase ci mette assai più del necessario. E non si limita all’artigianato. L’ho conosciuto meglio a Foggia, in una serata di luglio, l’anno scorso. Nel tempo residuo, ci siamo lanciati messaggi virtuali, scavalcando gli Appennini meridionali. Ma, mea culpa, fino a qualche giorno fa non ero stato sfiorato dall’idea di leggere anche Un giorno di questi. Problema risolto. Convinzione confermata. Marco ci parla nelle pieghe del concetto, lo trascende, evoca.

Non è il bello stile per il gusto del bello stile. È proprio che certe cose devono giungerti su un altro piano, che non è quello esplicito del significato immediato della parola scritta. È quello dell’esperienza di vita: dov’eri quando la camorra era in guerra con sé stessa e i cronisti si intrufolavano nelle case aperte per le veglie funebri, tra mogli, madri, fratelli e affiliati? Dov’eri quando, nelle notti agitate degli abusivi e dei piccoli criminali, poteva capitarti di imbatterti in Califano sotto botta e nella sua Porsche distrutta? Dov’eri quando Maradona si faceva fotografare coi fratelli Giuliano in una vasca a forma di conchiglia? E tu non sei contemporaneo degli eventi. E non sei neppure napoletano. Ma ce l’hai, quel sentore di presenza. C’eri, ma non sai dire perché. Lo ricordi, finanche. Come ricordi il terremoto dell’Irpinia e, prima ancora dei morti sotterrati, immagini faccendieri e democristiani, camorristi e brigatisti.

Come se, in un’altra vita, tu abbia fatto in tempo a sentire l’odore di fumo rancido e sudore delle redazioni in fermento, o quello opprimente dell’inchiostro di fresca nomina. Non c’eri, ma ti pare di conoscerli tutti, quei nomi e cognomi di giornalisti d’assalto, editorialisti e pensatori. Sarà che la cultura meridionale deve tanto a Napoli e nel tributo ci possiamo inserire anche il decennio del primo scudetto e le decine di Bellavista sulle tv locali. Che il principe di Sansevero, i cartomanti, gli ingegneri del Vomero, i cantanti del festival, i babà e i parcheggiatori, fanno parte della nostra cultura come della loro (o della nostra grazie alla loro), come Eduardo, Totò o Pino Daniele. O Massimo Troisi. Fatto sta che a me sembra di ricordarlo davvero, Giancarlo Siani. Che faceva l’abusivo di nera al Mattino – il Giornale Grande – e fu sparato dieci volte alla testa il 23 settembre del 1985, all’Arenella. Non per quel che aveva scritto, ma per quel che ancora aveva da dire. Avevo otto anni. Non posso ricordarlo. Eppure, lo ricordo. Perché la cronaca – un po’ come la scrittura di Marco Ciriello – non è solo nei fatti: date, orari, circostanze. È anche e soprattutto in ciò che, apparentemente discosto e dissonante, finisce per c’entrare. E diventa testimone imprescindibile.

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