Wallace, il guru e i suoi demoni. Conversazione con Michele Ragno

by Fabrizio Simone

David Foster Wallace è l’ultimo guru della narrativa, nonché il perfetto emblema della postmodernità. Figura tra gli autentici cavalli di razza della scuderia Einaudi e, a 12 anni dalla morte, il suo successo non conosce una battuta d’arresto. Bonculture ha incontrato il giovane Michele Ragno, autore di un saggio su David Foster Wallace come esperienza filosofica, edito da AM Edizioni (182 pp., 13 euro), in cui si scandaglia appunto l’intera produzione dello scrittore americano da un inedito punto di vista filosofico.

Cosa spinge Wallace ad includere, nelle sue opere narrative, una dimensione prettamente filosofica?

Sicuramente un peso molto importante è da attribuire alla sua formazione. Wallace studiò estetica ad Harvard e per un po’ accarezzò il sogno della carriera accademica, sfumata a causa di un blackout psicologico che gli aprì le porte della scrittura a tempo pieno. Il suo primo romanzo, ad esempio, si intitola “La scopa del sistema” e ruota attorno alla figura del celebre filosofo austriaco Wittgenstein, il cui Tractatus compare più volte nel corso dell’opera.

Wallace ha cercato di mettere in guardia i contemporanei di fronte ad un futuro sempre più impervio?

Certamente. Come saggista, oltre che come narratore, Wallace ha provato a denunciare, ad esempio, il cattivo ruolo esercitato dalla televisione sul modo di pensare americano. Ma lo stesso impiego di tecniche avanguardistiche postmoderne, da parte sua, viene giustificato per veicolare valori piuttosto tradizionali (valori religiosi, spirituali, l’importanza dell’amore e della comunità), messi a dura prova da tutta una serie di fattori.

Michele Ragno

Quindi, di fronte ai mali che caratterizzano la liquidità del nostro tempo, Wallace ha scovato un possibile antidoto.

Più di uno. Penso, ad esempio, alla religione, quando non scade nel fanatismo, oppure alle varie forme di comunità: in Infinite Jest le comunità degli alcolisti anonimi e dei tennisti servono, appunto, ad indicare l’importanza di tali formazioni nei processi che contribuiscono alla crescita dell’individuo.

E sulla dimensione amorosa, che è visibilmente cambiata negli ultimi anni, qual è il pensiero di Wallace?

A questo tema Wallace ha dedicato più opere, ma è in Di carne e di nulla, una raccolta di saggi, che affronta il problema del cambiamento della sessualità in seguito alla scoperta dell’AIDS. Wallace considera l’AIDS una malattia orribile, inquadrandola però anche positivamente: la malattia permette di recuperare una dimensione sessuale svincolata finalmente da un mero fine riproduttivo, tipico di una certa visione cristiana, conferendo a semplici azioni come un gesto o uno sguardo la giusta importanza.

Wallace e la politica: il sistema americano è totalmente marcio?

Wallace ha indicato spesso vizi e virtù del sistema politico americano, senza temere di rivelare i suoi aspetti più marci. Le stesse critiche al capitalismo esasperato possono inserirsi in questo filone. E i reportage sulla fiera delle aragoste nel Maine o quello sulla vacanza in una crociera extralusso vanno letti come testimonianze sulla stupidità dell’americano medio, attratto dall’opulenza e dall’individualismo estenuante, incentivati continuamente dalla politica.

Come si sarebbe posto Wallace nei confronti di Trump?

Diversamente da un King o da un Roth, non penso che Wallace avrebbe criticato apertamente il suo modo di fare politica. Non era nel suo stile svelare ai lettori le sue convinzioni più profonde. Di certo non avrebbe apprezzato molte sue uscite.

Nei suoi romanzi c’è già il sentore del suicidio?

Il suicidio è un qualcosa che accompagna tutta la sua scrittura. In Infinite Jest si parla molto spesso di suicidio. Penso ad un personaggio abbastanza particolare, Eric Clipperton, che si presenta sul campo da tennis con una pistola puntata alle tempie. Questo giovane tennista minaccia i suoi sfidanti dicendo che, se perderà, non gli resterà che spararsi. Lui vince tutte le partite ma i punti non gli vengono riconosciuti. Una volta raggiunti tutti i suoi obiettivi, Clipperton si spara. A questo punto bisognerebbe chiedersi qual è la reale motivazione del suicidio di Wallace. Sopraffatto dal successo, da lui considerato un ostacolo ai veri rapporti umani, Wallace sceglie di impiccarsi nella sua abitazione a Clermont, nel sud della California, a 46 anni, lasciando una moglie e una schiera di amici come Jonathan Franzen.

Perché Wallace si appassiona al rap?

Wallace, da ascoltatore degli anni’80/’90, vedeva nel rap una spinta sociale positiva. Questi ragazzi che non avevano nulla denunciavano le contraddizioni del capitalismo e dell’etica cristiana bianca che li aveva esclusi dai meccanismi sociali rilevanti. Tramite il rap, insomma, emergevano le classiche contraddizioni americane, però anche i rapper cadevano facilmente nella contraddizione: criticavano l’opulenza del maschio bianco ostentando le stesse cose che criticavano. È proprio questo il limite del rap per Wallace.

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