Direzione Morabeza: il sorprendente viaggio musicale di Tosca

by Felice Sblendorio

A febbraio, quando è ritornata a Sanremo dopo ben tredici anni d’assenza, in molti si sono chiesti cosa avesse fatto in tutto quel tempo. Tosca, in realtà, non è mai andata via dalle scene. Negli ultimi anni ha firmato alcuni dei progetti più interessanti e colti del nostro panorama musicale. Ha scelto di invertire mete e mezzi e ha girato il mondo alla ricerca di canzoni, appunti musicali, tradizioni e piccole perle da ritrovare e interpretare. Il frutto, contenuto in ben tre lavori distinti (“Il suono della voce”, “Appunti musicali dal mondo” e il recente “Morabeza), è qualcosa di prezioso.

C’è la ricercatezza del lavoro artigianale e la magia di quell’incastro che si realizza fra il suono della voce – che è centrale, quasi un filo rosso che ritorna e congiunge tutto – e il dono della scoperta. Ascoltare Tosca è una scoperta continua: i brani della musica portoghese, francese, araba, italiana sono i tasselli di un progetto più ampio, che parla e canta un mondo senza confini. I limiti, in questi lavori che Tosca ha inteso realizzare come progetti e non come prodotti – cosa sempre meno frequente per la discografia italiana, sfumano: l’integrazione di parole e melodie è nei fatti, in quella contaminazione di storie e popoli che, grazie alla musica, sono uguali. Uno dei brani più interessanti è “Il porto, a mesma musica”, scritto da Ermanno Dodaro e Massimo Venturiello e riadattato dall’artista portoghese Maria Anadon. In quella stessa musica che canta Tosca, immaginando un porto dove l’accoglienza diventa ricchezza e il Mediterraneo un confine da abitare insieme, c’è tutto il senso della ricerca musicale dell’artista romana: allontanarsi dalle sue certezze stilistiche e mutare, cambiare, reinventarsi in un confronto che è multiculturale, plurale.

Il risultato, in scena da qualche giorno nel nuovo spettacolo “Direzione Morabeza” e in programma ieri a Foggia nel cartellone del Festival d’arte “Apuliae”, è sorprendente. La ricchezza dei suoni e delle parole impreziosiscono due qualità del lavoro di Tosca: il tempo e l’ascolto. Come ogni lavoro artigianale è il tempo a rendere preziosa una produzione artistica: serve del tempo, quello giusto, per maturare una conoscenza e una cultura così vasta. In un passaggio dal francese all’arabo, dal portoghese all’yiddish, dalle canzoni popolari a quelle d’autore sembra non ci siano così tante differenze: la voce, nel tempo, ha fatto sue queste melodie, portando con sé una consapevolezza matura, piena. Questo grande progetto poi, che è diventato anche un documentario per la regia di Emanuela Giordano, si basa sull’ascolto: bisogna avere una predisposizione per mettersi in ascolto, per restare in ascolto, per rubare l’anima di quei momenti. Tosca ha fatto proprio questo: ha contaminato la sua identità tramite l’ascolto, senza paura.

Quasi tutti i brani che interpreta, impreziositi da questa cura, sono nati da alcuni incontri. In una discografia impegnata a cercare collaborazioni a effetto, calcolate economicamente o mediaticamente, Tosca ha scelto di incontrare prima delle persone, e poi degli artisti. Da Joe Barbieri, che ha arrangiato per “Morabeza” alcuni brani di commovente sensibilità come “Giuramento” o “Per ogni oggi che verrà” a Silvia Pérez Cruz che, con la rivisitazione di “Piazza Grande”, ha trasformato la piazza di Dalla in una piazza del mondo, di tutti, in un crocevia di lingue e suoni coinvolgenti. Altri due incontri sono imprescindibili in questa fase di maturità dell’artista. Il primo è quello con Pietro Cantarelli, autore di “Ho amato tutto”, brano rivelazione di Sanremo 2020. Con un’interpretazione densa e minima, Tosca si è confermata – ancora una volta – una delle interpreti più talentuose della musica italiana. In questo brano essenziale, così leggero da dialogare con un pianoforte per tutta la sua durata, Cantarelli ha messo a nudo una delle sue particolarità: la misura. Ogni parola, ogni suono, compreso quell’ultimo sospiro finale, è dentro una misura precisissima, commovente.

L’ultimo incontro, che aleggia sul finale in questo spettacolo impreziosito dalla bravura di Massimo De Lorenzi, Fabia e Alessia Salvucci e della poliedrica Giovanna Famulari, è quello con Ivano Fossati, che proprio a Tosca ha regalato un brano meraviglioso, forse quello che rappresenterà nel tempo questa carriera così sfaccettata. “Il suono della voce” è una canzone così autentica che solo un poeta del calibro di Fossati poteva scrivere. È un vestito perfetto per Tosca: quello che ha scavato nel profondo, raccontando una trasformazione, e ha compreso in una storia il tutto. Proprio Fossati, nel documentario di Emanuela Giordano, ha raccontato e tratteggiato in maniera precisa questa magia. «Il suono della voce è come lo sguardo. È quello che dice agli altri se siamo sinceri o no. Il suono della voce viene prima delle parole, prima della musica, della canzone. Se siamo convincenti lo siamo già nella musicalità che mettiamo in quello che diciamo. Quando tu ascolti l’assolo di uno strumento musicale, capisci se quelle frasi sono sincere o se chi sta suonando sta solo facendo virtuosismi, o esercizi. Quando c’è verità, quando c’è verità tu lo senti. Lo senti in uno strumento e lo senti nella voce umana. Il suono della voce è una chiave per attraversare le frontiere: se tu sei convincente non importa in quale lingua stia cantando, gli altri ti capiranno». Per Tosca è proprio così, parla il suono della sua voce: la condanna o la salvezza di un artista che, per predisposizione d’animo, non può mentire mai.

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