Giacomo Puccini e il cinema

by Daniela Tonti

La fortuna cinematografica del grande compositore – oltre una cinquantina di film ispirati all’opera e alla vita – costituisce un capitolo di grande interesse, troppo spesso trascurato nei bilanci della sua presenza nello spettacolo contemporaneo. Anche se la messinscena è talora discutibile, la trascrizione drammaturgica inappropriata, o addirittura sacrificato l’elemento essenziale dell’opera lirica e cioè la stessa musica, i film “pucciniani” rappresentano un aspetto importante del rapporto tra l’autore e il pubblico, mediato dal gusto cinematografico di quasi un secolo di chiamate di correità.

Naturalmente vanno considerate a parte le citazioni reperibili all’interno di molti film – da Victor Victoria(1982) di Blake Edwards a Attrazione fatale (1987) di Adrian Lyne – che si richiamano in modo occasionale, ma non per questo meno significativo, alle opere del maestro lucchese.

Sin dall’epoca del muto, avvalendosi dell’orchestra in sala per fronteggiare i limiti del mezzo, il cinema attinge storie e personaggi dal melodramma, con cui condivide la predilezione per la narrativa popolare fondata sulle emozioni forti. Non esita a saccheggiare il repertorio lirico italiano, portandone sullo schermo alcuni capolavori più famosi come La Bohème, Manon Lescaut, Madama Butterfly.

Negli anni del cinema silenzioso, l’opera più frequentata è Manon Lescaut, che conta varie trasposizioni francesi, italiane, americane, tedesche con Martha Régnier (1910), Jeanne Bénangère (1912), Lina Cavalieri (1914), Tina Xeo (1918), Norma Talmadge (1926), Lya de’ Putti (1926). Non mancano altri titoli eccellenti come Harakiri (1919), un’insolita Madame Butterfly tedesca del giovanissimo Fritz Lang con Lil Dagover e Niels Prien, dominata dalla suggestione esotica e dall’esasperata stilizzazione tipiche dell’espressionismo, e una Bohème (1926) americana di King Vidor, con Lilian Gish e John Gilbert, due tra i più intensi mattatori dell’epoca, realizzata da Irving Thalberg, il mitico producer della Metro Goldwin Mayer, che gioca in casa con la scenografia di Cedric Gibbons e rischia lo scandalo con gli audaci costumi di Erté.

Solo con l’avvento del sonoro il melodramma sembra acquistare piena cittadinanza sullo schermo, anche se la trasposizione integrale dell’opera lirica è rarissima, mentre sono frequenti le utilizzazioni parziali, le varianti anche curiose, i percorsi paralleli in cui il testo originale diventa traccia o pretesto.

Negli anni trenta e quaranta sono tre i film che si rifanno alle malinconiche vicissitudini di Mimì e Rodolfo. Il britannico La Bohème (1935) di Paul L. Stein, con un cast tra l’americano e l’inglese in cui spiccano Douglas Fairbanks Jr. e Gertrude Lawrence. L’austriaco Fascino di Bohème (1937) di Gèza von Bolvéry con la celebre coppia di cantanti formata da Martha Eggert e Jan Kiepura. Il franco-italiano Bohème (1942) di Marcel L’Herbier, con i giovanissimi Maria Denis e Louis Jourdan, l’unico che attualizza la vicenda in chiave antinazista, rievocando l’insurrezione del 1848, i soldati che sfilano al grido di “Viva la repubblica”, le tentazioni giacobine dell’albero della libertà.

Madame Butterfly (1932) di Marion Gering trascura quasi completamente la musica di Puccini e punta sui più elementari effetti drammatici, pur disponendo di due interpreti d’eccezione come il giovanissimo Cary Grant e la  fataleggiante Sylvia Sidney.

La fonte pucciniana è invece al centro di Il sogno di Madame Butterfly (1939) di Carmine Gallone, che ripropone la drammatica vicenda dell’opera, facendola rivivere con commovente sincerità alla cantante lirica Maria Cebotari e al direttore d’orchestra Fosco Giachetti di cui è innamorata.

Scritto da Thea von Harbou, Turandot (1934) di Gerard Lamprecht, interpretato da Kathe von Nagy e Willi Schoeffers, con le cupe scenografie espressioniste di Walter Röhring, è uno dei pochi film ispirati all’ultima opera pucciniana, di cui non esita a riscrivere proprio la musica. Si rifà invece allo spartito del grande compositore Manon Lescaut (1940) di Carmine Gallone che rilegge il melodramma in chiave esasperatamente sentimentale, affidandosi alla sontuosa scenografia di Guido Fiorini  e alla vibrante intensità di Alida Valli e Vittorio De Sica. È soprattutto l’interprete femminile che suscita l’applauso di uno spettatore d’eccezione come Cesare Zavattini: «Alida Valli è una Manon senza peccato, non avvezza a una carezza voluttuosa, al contrario del melodramma dove le trine morbide e l’alcova dorata hanno il loro peso. Alida porta gli abiti di Titina Rota come una diva e cammina con leggiadrissima sicurezza: un’attrice che cammina così ha le carte in regola per l’avvenire».

 Il titolo più sorprendente del periodo è Tosca (1941) di Karl Koch, con Imperio Argentina, straordinaria cantante di flamenco, Michel Simon, Rossano Brezzi, Massimo Girotti.

Invitato in Italia dal regime fascista, il film avrebbe dovuto dirigerlo Jean Renoir, il grande regista francese che ha appena realizzato La régle du jeu, oggi considerato un capolavoro. Ma, completata la sceneggiatura, gira soltanto le prime sequenze a Castel Sant’Angelo per abbandonare precipitosamente il set allo scoppio della guerra. Koch si attiene al proposito del maestro di immergere la storia nello sfondo romano per esaltare, con la plasticità del chiaroscuro e l’illusionismo scenografico del barocco, la dialettica delle passioni estreme.

I giovani critici frondisti di “Cinema” seguono con grande interesse l’inconsueta operazione anche perché Luchino Visconti, a cui molti guardano già come a un punto di riferimento, ne è l’aiuto regista.

Il secondo dopoguerra è il grande momento dell’affermazione della cineopera a livello di pubblico di massa pronto a trovare nella sala cinematografica la tradizione nazionale, che si ripropone con la forza della memoria storica nella forma della modernizzazione tecnologica e della suggestione spettacolare.

Il regista che più si prodiga nella divulgazione del repertorio lirico è Carmine Gallone, il commendatore melomane che la critica dell’epoca maltratta in modo sprezzante ma è oggi rivalutato dalla storiografia attenta al suo lungo tirocinio di grande artigiano attivo dagli anni dieci agli anni sessanta. Se Avanti a lui tremava tutta Roma (1946) attualizza la vicenda di Tosca, Cavaradossi, Scarpia, ambientandola nella Roma dell’occupazione nazista, con una straordinaria Anna Magnani che non esita  a fare la parodia della cantante d’opera, Addio Mimì (1947) è una Bohème in abiti moderni in cui i motivi pucciniani si mescolano alle vicende di una coppia di sfortunati cantanti polacchi interpretati da Martha Eggert e Jan Kiepura. Una curiosità: in una particina di fianco appare Constance Dowling, la bella attrice americana amata da Cesare Pavese.

Alida Valli

 Nell’attività di Carmine Gallone, la cineopera s’imparenta con il film in costume, la grande produzione spettacolare in cui la suggestione della fotografia a colori e della ricostruzione scenografica sono più importanti della drammaturgia. Come avviene in Madame Butterfly (1954), che nasce da un accordo di coproduzione italo-giapponese e mescola sapientemente attrici giapponesi e voci italiane, e in Tosca (1956), fastosa trasposizione dell’opera pucciniana, che secondo una diffusa consuetudine doppia gli interpreti con grandi voci della lirica. Il palcoscenico prevale esplicitamente in entrambi i casi, considerati tra gli esempi più significativi della carriera del regista, che predilige i toni decorativi e artificiali del teatro di posa ma non trascura le potenzialità scenografiche degli ambienti reali.

Il punto di approdo più rappresentativo del cinema operistico del maestro italiano è raggiunto da Puccini (1952) e Casa Ricordi (1954), i due film biografici che ricompongono con singolare efficacia la geografia sentimentale del musicista lucchese sullo sfondo delle vicende della casa, artefice, per svariate generazioni, dei trionfi della lirica italiana. Giacomo Puccini è impersonato in entrambi i titoli da Gabriele Ferzetti, particolarmente in parte nel ruolo del compositore con inevitabili approssimazioni, travisamenti e stereotipi a cui indulge la spettacolarizzazione di massa. Se  la critica è insolitamente benevola, il successo di pubblico è enorme. Puccini è in vetta nella classifica degli incassi della stagione.

  Nei decenni seguenti il successo popolare del film-opera diminuisce fino alla crisi generalizzata dello stesso genere che viene occasionalmente ripreso negli anni sessanta e settanta soltanto da alcune iniziative destinate al pubblico d’élite.

Si pensa in particolare a La Bohème (1963) di Franco Zeffirelli, una produzione svizzera con un cast tutto di cantanti, a cominciare da Mirella Freni, una straordinaria Mimì, e da Gianni Raimondi, che interpreta Rodolfo. Il mostro sacro Herbert von Karajan dirige l’orchestra della Scala, coinvolta nell’operazione. In Italia il film non trova una regolare distribuzione nelle sale e soltanto una decina d’anni dopo viene trasmesso dalla televisione. Quanto a La Tosca (1973) di Luigi Magni, con Monica Vitti, Vittorio Gassmann e Gigi Proietti, è più una parodia del dramma di Victorien Sardou che una ripresa dall’opera pucciniana. L’ambizione è semmai di tentare la commedia musicale se non addirittura il musical, un genere inconsueto per il cinema italiano, affidando la colonna sonora a Armando Trovajoli.

La Tosca

 Non meno contrastato è il successo di La Bohème (1988) di Luigi Comencini e di Maggio musicale (1989) di Ugo Gregoretti. Il primo ripropone la formula tradizionale della cineopera diretta da James Conlon e interpretata da Barbara Hendricks. L’incontro tra il melos di Puccini e la poetica elegiaca di Comencini, su cui punta il produttore Daniel Toscan Du Plantier, avviene solo in parte nel terreno prevedibile di un’ispirazione più lirico-patetica che drammatica,  della poesia del quotidiano aperta ai risvolti sentimentali, agli squarci onirici. Il secondo rievoca una stagione del Maggio musicale fiorentino, con i restroscena del mondo della lirica e le malignità tipiche dell’ambiente, attraverso le vicissitudini di un regista di mezza età che sta mettendo in scena La Bohème. L’ironia stinge nel sarcasmo, mentre il grottesco di molte situazioni lascia trasparire il retrogusto pscicoanalitico.

 Sono le due tendenze che affiorano anche nell’ultimo decennio: la riproposta dell’opera attraverso le risorse della messinscena cinematografica e la variazione personale che va dalla rilettura senza rete al richiamo pretestuoso. Nel primo caso il problema resta il rapporto con il palcoscenico, drasticamente rimosso o esplicitamente evocato, secondo le diverse strategie a cui dà vita l’interferenza dei mezzi espressivi, l’intreccio dei linguaggi.

 Nella rubrica delle libere riletture – a parte Vita da bohème (1992) di Aki Kaurismäki che riprende Henri Murger saltando completamente Puccini – si possono ricordare M. Butterfly (1993) di David Cronenberg e Tosca e altre due (2003) di Giorgio  Ferrara, che incarnano due approcci assolutamente diversi.

Il primo è un singolare viaggio nell’incubo del grande regista canadese, un dramma della finzione che si avvia in teatro e si conclude nello spettacolo allestito in carcere. La suggestione visionaria, la capacità di interrogarsi sul ruolo della mutazione nelle dinamiche del desiderio contribuiscono a fare della “fonte Butterfly” un riferimento di straordinaria intensità nella sofferta lacerazione del protagonista. Il secondo è un film insolito e divertente che sdoppia il testo originario nei due piani divergenti e contrapposti del melodramma e della commedia, puntando sul talento di Franca Valeri e Adriana Asti, impegnate nella portineria di Palazzo Farnese nel chiacchiericcio aggressivo e polemico con cui sfogano le loro frustrazioni, mentre i fantasmi del piano di sopra si materializzano in carne e ossa per cantare le arie più famose dell’opera. Sullo sfondo lo scenario romano ha i toni azzurrognoli e sabbiosi delle grandi tele settecentesche.

   Se il cinema è sembrato in un certo periodo far concorrenza al teatro quasi fino a sostituirlo, lo stesso è avvenuto nei rapporti tra la televisione e l’opera lirica. Negli ultimi decenni le riprese televisive del melodramma si sono venute moltiplicando fino a dare vita a un’imponente filmografia audiovisiva, spesso particolarmente apprezzabile per l’accuratezza della messa in scena, il talento della direzione musicale e l’affidabilità degli interpreti. Non diversamente è successo con l’affermazione delle videocassette e del dvd, che hanno arricchito il repertorio con un gran numero di iniziative, talora di grande interesse. È il caso di La Bohème (1993) di Baz Luhrmann, il geniale regista australiano (Ballroom, Moulin Rouge, Romeo+Giulietta), impegnato nelle riprese dal vivo del capolavoro pucciniano alla Sydney Opera House in una versione particolarmente innovativa, ambientata negli anni cinquanta, diretta da Julian Smith, con Cheryl Barker e David Hobson.

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