I wish I was I like you: il mito dei Nirvana nel documentario di Onorati e Gargamelli

by Giuseppe Procino

“I wish I was like you” è il titolo del documentario sull’ultimo concerto dei Nirvana in Italia che si è tenuto al Palaghiaccio (Palazzo del Ghiaccio) di Marino, in provincia di Roma, il 22 febbraio 1994. Ma è anche un viaggio all’indietro attraverso gli anni ’90, condotto dai due registi, spettatori di quell’epoca e quell’evento memorabile.

27 anni dopo quel concerto e la morte di Kurt Cobain, la struttura appare come un simbolo di decadenza ma diventa anche il punto di partenza per una celebrazione di quei protagonisti e una riflessione su quel periodo storico.

Esiste un prima e un dopo Kurt Cobain, esiste un prima e un dopo racchiuso in un lasso di tempo brevissimo tra l’uscita di Nevermind e la fine della band americana. Il Grunge, o meglio quel virus che iniziava a contagiare la così detta X generation, cresciuta con i videoclip, le audiocassette e i compact disc che stavano invadendo il mercato a discapito del vinile, si diffondeva a livello planetario, portando così il suo messaggio nichilista dalla provincia americana al mondo intero. Una rivoluzione culturale che viaggiava sugli accordi distorti di una Fender mustang e che si ribellava all’ordine delle cose, dopo la sbronza sintetica degli anni ottanta. L’underground si faceva largo tra il suono accomodante del pop e la morte dei synth e delle tastiere.

Arrivava così la moda delle camicie di flanella, delle converse (vendute a prezzi molto accessibili, “da pezzenti” come citeranno gli Zen Circus in una loro canzone) ma soprattutto arrivava l’idea che la musica fosse alla portata di tutti e che fosse un linguaggio in grado di creare comunità, idea già figlia degli ascolti comunitari del vinile. Tornava la voglia di esprimere un’attitudine, come lo era stato per il punk ma con una consapevolezza e una veicolazione del messaggio più efficace.

Una generazione arrabbiata che ritrovava nel rumore e nelle melodie semplificate la propria voce. Era qualcosa di nuovo e di cui a noi, nella rassicurazione di essere scampati definitivamente a un conflitto nucleare, arrivavano solo gli strascichi.

L’Italia non era l’America e forse non era neanche il resto dell’Europa, quello che si realizzava nel nostro paese era la brutta copia di qualcos’altro ma che conteneva tutto lo spirito del “do it yourself” e dei “sogni di Rock’n roll” (e qui chiedo scusa per aver citato Luciano Ligabue). Soprattutto assorbivamo dagli Stati Uniti lo spirito “cazzone” di quella scena di Seattle che prima che arrivassero loro, i Nirvana, era oscuro alle grandi masse. Una brutta copia, ma per molti una brutta copia bellissima, che si contrapponeva alle comitive dei metallari, dei dark waver, punk ma non troppo, pacifica e pacifista. Erano anche gli ultimi anni del boom dell’eroina che era arrivata da noi molto prima di Kurt Cobain e soci. Grazie ai Nirvana si scoprivano anche band fondamentali per la creazione di un suono identitario: Pixies, Melvins, Screaming Trees…

“I wish I was like You” è il racconto di tutto questo, il racconto di un momento storico breve ma fondamentale, che ha generato una nuova controcultura, forse l’ultima vera rivoluzione culturale. Una storia fatta di icone: tossici, bambini nudi in una piscina, quel cantante che suonava ma che non era felice di essere lì. E poi i concerti, che erano spesso veri e propri viaggi della speranza e i genitori perennemente presenti.

Luca Onorati e Francesco Gargamelli provano a raccontare con un’ironia dissacrante e uno stile Lo-fi, la loro adolescenza o meglio l’adolescenza della loro generazione prima dell’arrivo di Berlusconi al potere e prima della necessità dell’essere connessi a tutti i costi. Senza internet, cellulari, ma con una gran voglia di scoprire il mondo, mantenendo la capacità di emozionarsi perché il più grande fenomeno musicale del momento viene a suonare nel tuo paesino della provincia, Marino, ma che per mandare meno in confusione la gente (o confonderla sul serio) diventa nei comunicati e nei materiali promozionali magicamente Roma.

Il racconto dell’ultimo concerto dei Nirvana, pochi giorni prima del suicidio di Cobain, diventa così il mezzo per raccontare altro: la spensieratezza dell’adolescenza, la provincia, l’amicizia. È un racconto generazionale, divertentissimo e nostalgico al punto giusto, in grado di spiegare con estrema leggerezza ma potente efficacia cosa eravamo prima senza scadere mai nella retorica del “si stava meglio ai miei tempi” e che evita di dilungarsi troppo del didascalico.

I due registi alternano immagini di repertorio a personali home video, il tutto accompagnato ovviamente dalle note della band di Cobain, Novoselic e Grohl. In realtà del concerto dei Nirvana c’è ben poco ma c’è tantissimo di quello che la band di Aberdeen aveva scatenato. Un lavoro che sceglie di non dilungarsi troppo, come una canzone composta con tre accordi suonati velocemente e che contiene davvero tanta passione per la musica e lo spirito di quegli anni, tra paghette, canne, panini con la mortadella (utili per occultare macchine fotografiche ai concerti), videogame a 8 bit e la bellezza delle attese a cui noi non siamo più abituati.

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