Il cinema delle Variazioni Goldberg bachiane. «Il silenzio degli innocenti» e «Lacci», due casi esemplari

by Livio Costarella

Penetrare la natura delle cose, cercare il segreto nascosto nelle architetture, scovare disuguaglianze nelle armonie. Se l’uomo continua a sfidare se stesso, alla ricerca di pietre filosofali in qualunque campo artistico, la musica è quella che più di ogni altra consente di provare a scalare ogni genere di roccia. In primis per la sua natura enigmatica, e per un linguaggio espressivo che può essere decodificato dalla propria sensibilità. Se poi all’ascolto musicale si lega il linguaggio visuale del cinema, le capacità di decrittare un testo diventano molteplici.

È il caso delle Variazioni Goldberg che Johann Sebastian Bach scrisse quasi tre secoli fa, nel 1741: se la musica del compositore tedesco rappresenta per molti una sintesi perfetta di aritmetica e spirito, di terreno e trascendente, il suo utilizzo al cinema ha spesso designato un elemento impossibile da trascurare. Da Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo) a Scorsese (Casinò), fino a Tarkovskij (Solaris), la musica corale bachiana ha attraversato storie diversissime tra loro, connotando un preciso simbolismo.

Quanto alle Variazioni Goldberg, uno dei massimi monumenti della letteratura tastieristica, dopo il celebre ascolto che ne fa Hannibal Lecter (interpretato da Anthony Hopkins) in una delle sequenze più violente de Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, Daniele Luchetti ne ha offerto una rilettura non da poco nel suo ultimo film, Lacci (2020), che ha inaugurato la settantasettesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. In entrambi i casi, indipendentemente dalla volontà che il regista ha voluto conferire al rapporto musica-immagine, l’effetto che la musica di Bach produce nello spettatore è spiazzante. Ma al tempo stesso ha un che di carezzevole e lancinante, commovente e drammatico. Terreno e trascendente.

Il musicologo francese Jean-Jacques Nattiez, nell’opera «Il discorso musicale» ipotizza e sviluppa un modello teorico imprescindibile, legato al senso della percezione musicale. Secondo questo modello, le forme dell’espressione umana possono essere definite come «simboliche» (o metaforiche, aggiungeremmo) solo se in esse sono riconoscibili tre dimensioni o livelli: il processo poietico (legato alla creazione dell’opera, cioè all’emittente) che è l’insieme delle strategie grazie alle quali, alla fine dell’atto creativo, rimane una cosa prima non esistente; il processo estesico (legato alla percezione dell’opera, cioè al ricevente), che è l’insieme delle strategie messe in atto dal ricevente, ossia durante la percezione del prodotto dell’attività poietica. Tra questi due processi o livelli vi è l’analisi del cosiddetto livello «neutro», ossia l’oggetto musicale, che può essere analizzato in quanto «testo», cioè dal punto di vista della sua organizzazione interna o «immanente». La descrizione dell’opera è su questo livello “neutra” perché può essere sviluppata senza tener conto dei livelli poietici o estetici.

Ebbene, nel caso del rapporto tra musica e immagine, Nattiez non fa che scoperchiare un vaso di Pandora. Le Goldberg di Bach sono musica allo stato puro, quando eseguite al clavicembalo o al pianoforte. Restano identiche, ma diventano «simboliche» e metaforiche nei film di Demme e Luchetti. Pare che Bach abbia scritto questo brano (formato da un’aria iniziale, seguita da trenta variazioni) per un suo allievo, il giovane virtuoso del clavicembalo Johann Gottlieb Goldberg. Il primo biografo del compositore riferì che il pezzo fu commissionato al compositore da un nobiluomo di Dresda, il conte Hermann Carl von Keyserling: soffriva d’insonnia e necessitava di un’opera «rilassante e allegra», che il giovane Goldberg avrebbe dovuto suonargli durante la notte. Fin qui la destinazione d’uso (leggendaria o meno) di un brano che si è subito affrancato dalla motivazione della sua composizione, qualsiasi essa sia. Ne Il silenzio degli innocenti l’Aria delle Variazioni Goldberg interviene in una delle sequenze centrali del film, quella della fuga di Lecter dalla gabbia carceraria nella quale è ammanettato. L’uso delle inquadrature da parte di Demme, per tutta la durata del brano che ascoltiamo nel film (poco più di tre minuti e mezzo), è magistrale. Ed è la musica stessa, trasmessa da una fonte intradiegetica all’immagine (un registratore con musicassetta), a darci una serie di informazioni: Lecter, ex psichiatra e criminologo, è un uomo dalla cultura piuttosto elevata, e l’ascolto di Bach, mentre disegna in carcere, ne è una chiara testimonianza. Non solo: l’Aria, scandita dal pianoforte, lo rilassa a tal punto da farlo sembrare in estasi. C’è dunque una forte corrispondenza tra ciò che la musica esprime e il soggetto presentato nel film: ma il viaggio nelle sfere celesti di Lecter ha qualcosa di tremendamente nascosto, che lo spettatore percepisce quando la camera stringe sul dettaglio di un fermaglio che Lecter ha nella mano sinistra, prima di essere ammanettato.

A livello percettivo, sta accadendo ciò di cui parla Nattiez: la musica, in apparenza rilassante e «sedativa» (come avrebbe voluto il conte Keyserling), cela nella sua immanente e dolce struttura melodica, un’altra segreta natura. È il livello «neutro», la decodifica tra ciò che il film sta comunicando e la sensazione interiore dello spettatore. Una dimensione che deflagrerà di lì a poco, con la fuga di Lecter, dopo aver ucciso in maniera truce i due poliziotti. L’elemento esemplare della sequenza, dall’arrivo dei poliziotti alla fuga di Hopkins, è il fatto che la musica resti sullo sfondo per tutta la sua durata. E che anzi, continui a rappresentare il compiacimento estatico del killer, dopo aver abusato sanguinariamente delle sue vittime. Se per lo spettatore, nell’incipit della sequenza, l’Aria di Bach costituiva un sottotesto «ambientale» e culturale, quella linea melodica, al termine, ha assunto un altro significato, del tutto opposto.

Set di “Lacci”, regia di Daniele Luchetti. Nella foto Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher.
Foto di Gianni Fiorito

In Lacci di Luchetti, ispirato dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, l’uso della musica bachiana rappresenta qualcosa di altrettanto sofisticato nel processo di percezione visiva, seppur con diversi intenti simbolici. «Ho aggiunto anche un brano dalle Variazioni Goldberg di Bach – afferma il regista – perché la musica barocca vuole in un certo senso mettere in ordine quello che non si può mettere in ordine, proprio come questo film fa con i sentimenti».

La storia raccontata dal lungometraggio è quella drammatica di una coppia che da tempo ha «slacciato» ogni sentimento familiare: Aldo ha tradito la moglie Vanda, e abbandonato i figli (Anna e Sandro) a lei, a Napoli. A Roma, Aldo convive con Livia. In questo doppio binario, i figli crescono con un rancore mai sopito: dentro la propria calma apparente, covano un vulcano di contrasti irrisolti e di «lacci» impossibili da riannodare. Le note bachiane, ascoltate nel film più volte e in diverse sequenze, quasi a costituire un leitmotiv portante della storia, sono anche stavolta il risultato complesso di segni e simboli che lavorano nello sguardo e nella coscienza dello spettatore. Le Variazioni Goldberg restituiscono la sensazione che ogni nota sia «allacciata» irrimediabilmente all’altra, in una unione melodica e armonica che rasenta la perfezione. Ma in tal caso, la situazione drammatica di una famiglia con delle crepe irrecuperabili, rappresenta il lato più nascosto del brano, già adombrato nel film di Demme.

In ambito storico e musicologico, per quanto riguarda questo brano bachiano, «c’è chi vi intravede i “pianeti” del sistema tolemaico – scrive acutamente il critico musicale Gian Mario Benzing -, chi la retorica di Quintiliano; il pianista Simone Pedroni, meglio, ha interpretato le Goldberg come grandioso inno alla Trinità. Certo: matematica, fede e bellezza in Bach sono tutt’uno. Ma qui i contorni si fanno sfuggenti. Le Goldberg non sono Variazioni “consuete”, ove il tema gradatamente si trasformi, restando, però, più o meno “visibile”. No, qui l’Aria appare già come variata, in mille fioriture alla francese; e le Variazioni non variano lei, la melodia, bensì il suo basso (peraltro assai comune e vicino al corale d’Avvento “Vom Himmel hoch”): un po’ come se, entrando in una cattedrale, così mi disse András Schiff, invece di guardare in alto seguissimo i mosaici del pavimento».

La struttura narrativa dei film di Demme e di Luchetti diventa, così, grazie alle Goldberg bachiane, una polifonia di percezioni. Le fughe non sono solo musicali, ma anche quelle di ciascun personaggio. Così come i canoni e i ritorni, i collassi e le ascese. Tensione e distensione si fondono nella faccia della stessa medaglia, così come implosione e detonazione. E tutto questo grazie al rapporto così sincretico e profondo tra musica e immagine. «Questo non è solo il lavoro più incredibile e creativo nel repertorio per tastiera, è anche il più multidimensionale», ha osservato il pianista cinese Lang Lang, dopo aver inciso le Variazioni Goldberg. «Ci consente di attingere a tutto ciò che abbiamo dentro di noi, ma ci fa anche capire ciò che manca e ciò che dobbiamo ancora imparare». Lang ha definito il brano il suo «Everest» musicale. Ed allora, ragionando su ascesa e caduta dei protagonisti dei film citati (e forzando il senso letterale delle parole), la metafora di una vetta impossibile da raggiungere sta anche nel nome del capolavoro bachiano. Goldberg. Gold Berg, traducibile in tedesco come «montagna d’oro».

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