Je t’aime… Moi non plus, la rivoluzione sessuale attraverso una canzone

by Claudio Botta

A 32 anni dalla morte (avvenuta il 2 marzo), la palazzina in rue de Verneuil 5 bis, un’esplosione di colori, graffiti, murales e fiori nel cuore del Settimo arrondissement a Parigi, dove visse dal 1969 con Jane Birkin e le figlie Kate e Charlotte, continua a essere meta di pellegrinaggio di turisti e ammiratori bohémiens, in attesa dell’apertura al pubblico come casa museo – le pareti dipinte di nero e il mobile bar in legno laccato, il pianoforte a coda e i mozziconi delle sue ultime Gitanes le attrazioni annunciate -, più volte rimandata per la pandemia e per la difficoltà nel superare i continui ostacoli della burocrazia, nel riadattare e risistemare gli ambienti in conformità con le normative vigenti ma cercando di mantenere inalterata l’identità originaria, nel dare un ordine e una collocazione a un numero incredibile di oggetti (compresi i distintivi della polizia che amava collezionare), libri, documenti, 45 giri.

«Voilà, c’est chez moi. Je ne sais pas ce que c’est: un sitting-room, une salle de musique, un bordel, un musée» («Questa è la mia casa. Non so cosa sia: un salotto, una sala da musica, un bordello, un museo»: parole di Serge Gainsbourg, l’attore e chansonnier irresistibilmente attratto da eccessi e provocazioni, l’Apollinaire e il Baudelaire della seconda metà del Novecento (definizione dell’ex monsieur le président Francois Mitterand, che la trasgressione l’ha portata all’Eliseo), l’artista poliedrico e impossibile da incasellare, il cui fascino e mito non mostra alcun segno di cedimento. Così come continua a mantenere intatta la sua esplosiva carica di sensualità e disperata passione la sua Je t’aime… Moi non plus, il manifesto della rivoluzione sessuale pre e post ’68 compiuta in una sala di registrazione e da lì deflagrata in tutto il mondo, tutti i paletti e limiti imposti da censura, decoro, mentalità, conformismo e ipocrisia travolti e spazzati via, il privato che diventa scandalosamente pubblico ma elevato ad arte e talento purissimo, a distanza siderale dai tristi Grandi Fratelli che sarebbero arrivati decenni dopo.

Una canzone nata da un incontro travolgente, quello con la diva Brigitte Bardot, incontrata per la prima volta nel programma televisivo Sacha Show, dove avrebbero dovuto interpretare in coppia una cover di Raindrops Keep Fallin’ On My Head di Burt Bacharach. Un coup de foudre annunciato che ha determinato la crisi nelle rispettive relazioni in corso (una moglie Béatrice Pancrazzi – madre della sua prima figlia Natacha – lui, un marito svizzero Gunter Sachs – che l’aveva conquistata facendo piovere dal cielo migliaia di rose rosse sulla villa a Saint Tropez – lei). Tre mesi e mezzo vissuti in semiclandestinità ma con l’acceleratore delle emozioni spinto al massimo. La richiesta di BB a Serge una notte di scrivere «la canzone d’amore più bella del mondo», lei che si addormenta e lui che dopo qualche ora la sveglia, con musica e testo in forma embrionale ma già vicina a quella che sarebbe diventata leggendaria. La registrazione avvenne nella notte del 10 dicembre 1967 allo Studio Barclay, all’Avenue Hoche a Parigi. Le loro voci che minano un amplesso, parole e sospiri inequivocabili, erotismo crescente, malinconico, atteso e disatteso, attrazione e distacco («l’amour physique est sans issue», l’amore fisico è senza speranza), la ragione azzerata, la libertà di essere pienamente sé stessi e viversi, e la trappola e la paura delle promesse e degli impegni. L’ambiguità solo apparente del titolo, la prima parte Je t’aime (affidata a BB) e la seconda che tenta in maniera decisamente poco convincente di negarla (moi non plus, Serge), omaggio a una celebre frase di Salvador Dalì che terminava con «Picasso est communiste, moi non plus» (Picasso è comunista, nemmeno io), gioco di specchi e contraddizioni insieme, o più semplicemente la licenza di vivere pienamente e completamente l’attrazione fisica e il piacere senza il filtro e lo schermo dei sentimenti. Buona la prima, 4 minuti e 32 secondi di rapporto simulato (forse) accompagnato dall’arrangiamento di Michel Colombier: ma pubblicarla vorrebbe dire per lei ammettere pubblicamente l’adulterio, ed affrontare un nuovo divorzio. E quella passione così devastante e assoluta si stava inesorabilmente spegnendo (il via libera sarebbe arrivato soltanto nel 1986, la Philips l’etichetta scelta).

La Bardot tornò quindi da Sachs, Gainsbourg cercò inutilmente di proporre la canzone – avendone intuito le potenzialità – ad altre possibili interpreti, comprese star come Marianne Faithful e Mireille Darc. Nell’autunno del 1968 incontrò sul set del film Slogan diretto da Pierre Grimblat (lui attore ed autore della colonna sonora) la ventenne attrice inglese Jane Birkin, che si era fatta notare in Blow-Up di Michelangelo Antonioni (anche per una scena a seno nudo) ed era reduce dalla rottura con il marito, il celebre compositore John Barry. Una cena galeotta e l’inizio di una nuova, intensa relazione, che li porterà presto ad andare a vivere a L’Hotel di rue des Beaux Arts, l’ultima dimora di Oscar Wilde, morto lì il 30 novembre 1900. E a registrare una nuova versione di Je t’aime… Moi non plus nel dicembre dello stesso anno, superando la ritrosia dovuta alla spiacevole sensazione di non essere la donna per cui era stata scritta, e le difficoltà dovute alla lingua.

Uscirà dopo qualche mese, e proietterà la coppia in una dimensione glamour nella quale permane tuttora, per l’incontro elettrizzante tra due mondi – la nouvelle vague, la swinging London – e due modi di vivere, il pigmalione (im)maturo e inquieto e la musa ispiratrice, il rifiuto delle convenzioni e delle regole. E la voce della Birkin aggiunge innocenza e malizia, amplificando il successo e lo scandalo: cinque milioni di copie vendute nel giro di pochi giorni in Francia, vendita vietata nell’Inghilterra e brano censurato dalla BBC, in Italia esce come 45 giri a maggio ed entra subito nella classifica di Hit Parade, la trasmissione radiofonica condotta da Lelio Luttazzi, ed arriva fino al quarto posto prima di finire sotto la mannaia della censura Rai, che la bolla come “indecente” e ne vieta anche la semplice citazione. Una censura aggirata sintonizzandosi sulle emittenti Radio Montecarlo e Capodistria, ma il 22 agosto arriverà la scomunica del disco per un intervento del Vaticano (attraverso l’Osservatore Romano), e il successivo 28 agosto il sequestro e la distruzione su tutto il territorio nazionale delle copie distribuite dalla Phonogram (che faranno lievitare il prezzo delle copie clandestine).

Nulla che potesse fermare una piena che avrebbe visto nei decenni successivi migliaia di (pallide) imitazioni, centinaia di cover in più lingue (da Donna Summer a Madonna, da Nick Cave & Anita Lane ai Pet Shop Boys, da Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer a Ombretta Colli in italiano, per citarne solo qualcuna), nuove edizioni e ristampe. Nemmeno l’uscita della prima versione con Brigitte Bardot è riuscita a minare l’iconicità di una coppia e di un brano che appartiene a Serge e Jane, e la borsa di Hermès per regalare a lei l’immortalità è soltanto un (costoso, sfizioso, chiccoso) accessorio.

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