Nella deep America l’Arte è un bisogno necessario

by redazione

Si conclude un altro percorso di concerti, master class, incontri in un’ America interprete tragica e affannata del presente. Una nazione protagonista e vittima del reale di cui vuole essere creatrice anche quando sembra non riuscire a interpretarlo.Attraversare le università della deep America che costituiscono l’ossatura del sistema, dove l’eccellenza delle strutture, dei mezzi, delle possibilità, è sempre più ampia, al di là dei luoghi mito del sapere artistico e non solo, significa innanzitutto guardare alle persone.

Gli studenti innanzitutto, i loro docenti, e intere comunità che gravitano intorno ai luoghi dove si produce la conoscenza, dove si crea e si vive un presente dal rapidissimo consumo destinato a scomparire senza nemmeno ambire allo status di “passato”. Ragazzi consumati da questa velocità di informazioni, efficienza di apprendimento, rapidità di realizzazione, che dovrebbero dominare e li ha invece fagocitati attaccando la dimensione primaria del loro essere: la capacità di creare la propria vita, attraversando il necessario percorso immateriale di crescita e definizione di se stessi.Parlare a questi giovani significa immergersi in una preoccupante sterilizzazione emotiva dinanzi alla quale l’Arte diventa un bisogno primario. Silenzio assoluto, certo, sguardi smarriti, parole cancellate, lessico contratto, la complessità della propria persona abbandonata. Domande che non si pongono, a meno che non si possa riconoscere un processo rapido ed efficiente di risposta. Studenti più brillanti quasi tutti asiatici, ed ancora più vittime di un sistema che fornisce soluzioni a problemi inessenziali. Perché oggi il percorso verso la propria collocazione lavorativa, una relativa affermazione economica, l’assimilazione ad un rango sociale “middle class” ancora oggi icona di felicità fasulla, è appunto inessenziale.Le domande sul “come stiamo crescendo?” ” quali i rapporti che difendiamo e quali rinunce affrontiamo per essi?” ” quanto investiamo nelle nostre passioni?” “Quanto immaginiamo un percorso umano che sia intimamente nostro?” ” quali rischi ci assumiamo per nutrire un ideale?” sono gradualmente marginalizzate a meno che non abbiano una risposta comunemente accettata. La terra del self made man è self made solo a precise condizioni e specificatamente economiche.

Dallas

Nihil novum dunque anzi un progressivo peggioramento dell’idolatria di un mito produttivo finanziario su cui impostare la persona e la società. In questo contesto la sterilizzazione emotiva è quanto mai necessaria, perché è la multiforme imprevedibilità della vita interiore, del suo contenuto emozionale profondo, che spinge l’umano a deragliare dal binario su cui viene impostato. E i luoghi del sapere, le università, i consessi artistici, dovrebbero essere le cattedrali di questa necessaria imprevedibilità che è la chiave della realizzazione della persona e del contributo sostanziale e creativo di tutti alla famiglia umana. Ma nel momento in cui sterilizziamo le emozioni, attraverso la progressiva eliminazione delle domande diverse, domande su se stessi, sulle donne ed uomini che vigliamo essere abbiamo annullato la possibilità di partecipazione alla felicità.Dinanzi a questi occhi smarriti, ai silenzi del turbamento interiore, al vuoto che divora, la risposta artistica è una luce travolgente che va coltivata perché alternativa a risposte disumane. Perché l’umano reagisce a questo spegnimento dell’anima, di ciò che siamo. E la reazione spesso è disperata, violenta, assurda, criminale, armata. Oggi tragicamente locale e universale.
Ma se si mostrano strade in cui si crede, spendendo la vita, è proprio questo contesto d’oltreoceano di una civiltà centrata sull’efficienza finanziaria assoluta e sul contenimento emotivo nell’ambito della retorica plateale o della soddisfazione superficiale, a rispondere con una fertile inquietudine conoscitiva e un’ adesione sincera.
Adesione fatta di amicizie, di vita riscoperta come interamente nuova, di un entusiasmo giovane e senza limiti per il bello trasformato in quotidiano.
Rachmaninov, Mendelssohn, Bizet il mio amatissimo Bach: sono stati ancora una volta il passpartout per trasportare in un luogo altro fatto d’Arte chi ha voluto condividere un’esperienza semplice e totale.

Così mentre cenavo tra 20 persone talmente entusiaste del concerto che dall’Arte aveva fatto nascere una comunità, mi ripetevo che questa musica, quest’arte sarà sempre più necessaria. Perché l’anima non può essere un deserto, e non può nascondere i suoi frutti. Sterlizzarne i paesaggi, le ansie, le domande è l’unica tragica follia.

Eppure per rinascere a volte basta poco. Basta coltivare con fiducia illimitata un suono: Inquieto, generoso, irrimediabilmente vero.

Francesco Mastromatteo

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