Nicola Benois, lo scenografo dalla vita leggendaria: dai bagni con Ravel alle cene con Peter Ustinov

by Fabrizio Simone

Per ben 35 anni – dal 9 dicembre 1937 fino al 30 gennaio 1970 – Nicola Benois ha rivestito il ruolo di Direttore dell’allestimento scenico presso il Teatro alla Scala. Sin dalla sua fondazione fino all’assunzione di Benois, nessuno ha svolto questo incarico per un periodo così lungo. In realtà l’artista russo inizia a lavorare per il teatro milanese già nel 1925: il regista Aleksandr Senin affida al ventiquattrenne i costumi e le scene per la Chovanščina di Mussorgskij, con la direzione di Toscanini.

Il direttore d’orchestra parmigiano apprezza i suoi bozzetti dai toni vivaci e per il giovane pittore si spalancano le porte del tempio della lirica. Come scenografo, Benois crea 300 spettacoli, dipinge 1200 scene e 9000 figurini, dai quali vengono ricavati 100 mila costumi. Siccome ogni scena è costituita da 2000 metri quadrati di tela dipinta, Benois riempie 2400.000 metri quadrati di tela, che equivalgono a una strada larga 10 metri e lunga 240 chilometri. Altrettanto sbalorditivo è il numero degli spettacoli per i quali firma scene e costumi come direttore dell’allestimento scenico: 703 opere e 372 balletti. Eppure la vita (rocambolesca) di Benois e la sua opera sembrano essere state dimenticate, ma grazie alla casa editrice Lindau possiamo leggere per la prima volta le sue memorie, Figlio russo dell’Italia (curate da Renzo Allegri), autentico compendio di incontri memorabili e di esperienze artistiche che hanno segnato un’epoca.

Benois è figlio d’arte: suo padre è il celebre Aleksandr, pittore, storico dell’arte, direttore dell’Ermitage (sarà lui a donare al museo il vero tesoro della famiglia, la Madonna Benois, dipinta da Leonardo da Vinci a 26 anni), co-fondatore dei Balletti Russi insieme a Djaghilev e librettista (scriverà Petruška per Stravinskij, curando anche le scene e i costumi del balletto). Ma la sua famiglia comprende anche altre figure di spicco: suo nonno è l’architetto Alberto Cavos (il teatro Mariinskijdi San Pietroburgoè il suo capolavoro), figlio del compositore veneziano Catterino Cavos (tra i suoi allievi figura Michail Glinka), mentre il suo bisnonno è il drammaturgo tedesco Johann Friedrich Kind (avete mai ascoltato Der Freischütz di Weber? Il libretto è di Kind).

Il piccolo Nicola cresce in una famiglia affettuosa e stimolante. I Benois viaggiano continuamente all’estero e quando sono in patria aprono il loro salotto pietroburghese alle giovani promesse e all’élite: Igor Stravinskij intrattiene Nicola con giochi di prestigio e spesso resta a dormire a casa sua per lavorare con l’esigente Aleksandr; Arthur Rubinstein suona Chopin mentre il povero Marc Chagall prova a vendere qualche quadro ai facoltosi ospiti; Sergej Prokof’ev propone le sue prime composizioni e si innamora della primogenita di casa Benois, Anna, che rifiuta la sua proposta di matrimonio. Nel 1914 tutta la famiglia trascorre una bella vacanza a casa di Maurice Ravel. Ravel instaura un bel rapporto col talentuoso adolescente: i due si rincorrono in mare, si tuffano, giocano tra le onde e si trastullano, ma sulla spiaggia adocchia le sorelle del suo giovane amico e cerca invano di sedurle. Però quei giorni felici l’aiutano a completare il fatidico Trio per violino, violoncello e pianoforte. Salutato Ravel, i Benois raggiungono Parigi: nella capitale francese Nicola conosce Misia Sert, l’ingioiellata Ida Rubinstein, con cui collaborerà più volte negli anni successivi, e Gabriele D’Annunzio. L’incontro col Vate si rivela deludente: “Conoscevo i suoi libri e me l’ero figurato diverso. Ai miei occhi di ragazzo, sembrò un uomo goffo e brutto. Era magro, completamente calvo, con il collo troppo lungo, stretto in un altissimo colletto inamidato. Era elegante, chic, ma non vedevo in lui niente di romantico o di eroico”.

Lo scoppio della guerra costringe i Benois al rientro in Russia. La Rivoluzione è vicina: in questi anni Nicola conosce la fame e la miseria, diventa amico di Majakovskij e di Kandinskij, e pur di guadagnare un po’ di cibo extra (due etti di patate marce e un quarto di olio di ricino) accetta il posto di guardiano notturno all’Ermitage. Una notte, mentre attraversa la sezione di Egittologia, ha una disavventura con una mummia seduta su un sarcofago e fugge a gambe levate. La via del successo non è lontana: sulla sua strada c’è il direttore del conservatorio di San Pietroburgo, Aleksandr Glazunov, che gli commissiona scene e costumi per un nuovo allestimento di un suo balletto, Le stagioni. Glazunov gli racconta le sue avventure col vecchio Liszt, tracanna senza contegno i vini prelibati che la signora Benois gli offre e finisce spesso sul pavimento, scandalizzando tutti con barzellette piccanti, per la maggior parte ebraiche o armene.

In Italia – Benois si divide tra La Scala e il Teatro dell’Opera di Roma – collabora con i grandi operisti: visita Ravenna con Ottorino Respighi per ricreare la sontuosità bizantina di cui è impregnata La fiamma (apprezzata da Mussolini e da Papini) e salgono insieme sulle impalcature per osservare da vicino i celebri mosaici della basilica di San Vitale; discute animatamente con Pietro Mascagni, poco ferrato sull’arte dell’allestimento e sul Giappone; tra una barzelletta napoletanael’esecuzione di un’aria del Re al pianoforte, Umberto Giordano gli rivela che ha composto gran parte dello Chénier nella centralissima casa chiusa di via San Pietro all’Orto a Milano, facendo ascoltare in anteprima i numeri appena sfornati proprio alle gentili signorine del bordello. Di Giordano ammira l’amore per gli animali: “Un giorno, ero andato a trovarlo nella sua casa di Milano, per mostrargli gli schizzi di alcune mie idee per la sua opera, e rimasi incantato dai moltissimi uccellini di varie specie, che lui lasciava svolazzare liberamente nel suo studio. Il maestro li chiamava uno per volta con il proprio nome, ed essi uno dopo l’altro gli volavano vicino posandosi sulle sue spalle o sulla testa. Era davvero commovente e la mia simpatia per quell’uomo così buono crebbe ancora di più”.

Quando la Scala va in tournée in Germania, nel 1937, Benois incontra il Führer: Hitler mi strinse la mano calorosamente e disse con orgoglio: «Anch’io sono un pittore, siamo quindi colleghi». Un complimento che fece sorridere i colleghi e anch’io sorrisi, anche se quelle parole non mi piacquero. Che Hitler si divertisse a dipingere non mi importava. Ho avuto anche occasione di vedere i suoi quadri. Erano cartoline postali, leccate a oltranza. Scherzosamente si diceva perfino che, per riconoscerne l’autenticità, bastava passarvi sopra la lingua. […] Si bevve dello champagne e Hitler pronunciò un breve discorso, inneggiando alla Scala e all’amicizia tra la Germania nazista e l’Italia fascista. Poi di colpo il registro della sua voce cambiò e con toni stridenti e gutturali lanciò anatemi contro il comunismo, auspicando la vittoria di Franco in Spagna. In quel momento aveva persino cambiato fisionomia ed ebbi la netta impressione che dagli occhi sprizzassero come delle scintille. Non avevo dubbi: davanti a noi c’era Satana in persona!”.

Lavorando al Teatro Colón incontra i coniugi Peròn. Evita lo ammira e gli presenta un’amica, con cui inizia una breve love story (Lucia è sposata).A bordo del Conte Grande, di ritorno da Buenos Aires, conosce Joséphine Baker, che ritrae a matita. In sua compagnia trascorre piacevoli ore durante la sosta a Dakar. Durante il soggiorno londinese del 1950 riabbraccia sua cugina, la pittrice Nadia Benois, madre di Peter Ustinov. L’attore trentenne, ancora magro e praticamente sconosciuto ai più (il successo arriverà l’anno successivo con Quo vadis, in cui interpreta Nerone), mostra all’affermato parente ogni angolo di Londra e propone a Benois una capatina in un night che frequenta spesso. Qui, a sua insaputa, c’è Marlene Dietrich, che si unisce al gruppo perché Peter è una vecchia conoscenza. Non contento, Ustinov lo conduce in un ristorante indiano e ordina per tutti una zuppa a base di carne di tartaruga. Il povero scenografo vorrebbe persino chiedere il bis, ma quando scopre l’ingrediente principale è assalito da un senso di disgusto.

Nominato direttore artistico dell’allestimento scenico alla Scala, Benois decide di coinvolgere per le scenografie anche pittori celebri: quando De Chirico compie un errore clamoroso sui bozzetti per l’Anfione di Honegger (dipinge un enorme piede con sei dita), Benois gli ordina di provvedere personalmente alla correzione ma De Chirico non riesce a raccapezzarsi e i giovani scenografi sono costretti a risolvere il pasticcio; insegue inutilmente Picasso a Vallauris e a Parigi per ottenere i bozzetti del Cappello a tre punte, rischiando di restarci secco durante un clamoroso litigio tra l’artista e sua moglie (“dalla finestra volavano fuori piatti, sedie, scarpe”, ammette Benois); si rivolge a Dalì per l’allestimento dell’Arlecchino di Busoni e l’avido surrealista si presenta all’appuntamento, nella villa torinese dei conti Rossi di Montelera, coi baffi impregnati di una sostanza appiccicosa (“visti da vicino, risultavano persino ripugnanti”) e sormontati da piccole margherite bianche perché non riesce a trovare gli amati gelsomini. Il pallido Benois rischia persino di svenire a casa di Roberto Rossellini, regista dell’edizione scaligera della Giovanna d’Arco di Honegger, ma può contare su due infermiere speciali, Ingrid Bergman e Ava Gardner: “Ingrid Bergman si accorse delle mie condizioni e si preoccupò. Mi fece sdraiare su un divano del salotto e si diede un gran da fare per rimettermi in sesto. Mi portò del tè, mi fece prendere delle pasticche antispasmodiche, mi diede dei guanciali e mi coprì con un plaid, insomma mi fece quasi da madre. A malapena tenevo gli occhi aperti, perché mi sembrava che tutto girasse vorticosamente attorno a me, ma riconobbi Ava Gardner. Mi sembrò molto più minuta di quella che avevo visto diverse volte al cinema. Non so se dipendesse dal mio malessere, sta di fatto però che in quei momenti io avevo ben due infermiere del tutto sensazionali al mio capezzale, in quanto anche la Gardner cominciò a preoccuparsi per me. Rossellini non era in casa, era stato trattenuto a Cinecittà, ma in quel momento, nelle condizioni in cui mi trovavo, non avrei potuto avere il più piccolo scambio di idee con lui. A poco a poco le gocce calmanti che mi aveva fatto prendere la Bergman fecero il loro effetto e mi assopii. Era l’ora di pranzo e io riposai, mentre gli altri mangiavano. Quando mi svegliai il malessere fortunatamente era passato. La padrona di casa mi offrì una tazza di brodo. Mi sentivo perfettamente in forma, del tutto pronto a iniziare il colloquio con Rossellini che nel frattempo era rientrato a casa”.

Nel 1970 Benois va in pensione. Non si ferma: per la Scala realizza altre quattro opere (una gli viene pagata senza essere rappresentata) e gira il mondo. I grandi teatri – da Tokyo a New York – se lo contendono, mentre la Scala inizia a dimenticarsi di lui. Umiliato, Benois si ritira a Codroipo, dove muore nel’88, consapevole di essere stato “epurato, spedito in pensione con grande urgenza, e poi ignorato per sempre” perché privo di tessere di partito e di protezioni politiche. Nel frattempo Codroipo gli ha intitolato il teatro cittadino, la Scala un padiglione in cui vengono realizzati gli elementi scenici.

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