“A voce alta”, l’arte di Mediante col flash mob memoria per Giovanni Panunzio. «C’è molta paura in città. Non c’è trasparenza, ci sono solo non detti»

by Giammarco Di Biase

Agorà. Raccolgo, raduno. Gli agorai arcaici strettamente associati a santuari religiosi, e ad attività di intrattenimento, feste giochi, teatro.

Foggia, 26 anni fa, non siamo nella polis, non siamo nelle piazze minoiche dove le prime agorai sono state pensate, costruite, traducendo l’individualismo in collettività, scambiandolo di grado, aprendolo il popolo, l’uomo, al narrabile comunitario, alla comunicazione dei più. 26 anni fa, la mafia uccide l’imprenditore Panunzio, un nome quello di Giovanni che non ha smesso di essere un catalizzatore contro il racket, la violenza. Le idee, spesso dimenticate, anfratti di un popolo spento, persuaso da un cambiamento che non c’è, sono rimaste intatte. L’idee di un uomo ucciso, assassinato perché decise di ribellarsi e rompere il silenzio che in quegli anni c’era nel settore edilizio.

Oggi lo si ricorda, anniversario del 6 febbraio, lo si ricorda, dicevamo, grazie ad un collettivo artistico chiamato Mediante, all’esigenza di fare i conti non solo con l’omertà, ma con i tempi difficili che sta vivendo l’arte, il teatro per inciso, la cultura italiana. E’ spaventoso pensarlo, è spaventoso rivolgesi alla gente, mai conosciuto, dimenticato negli scalini, nei tombini, nell’andirivieni, il tumulto di un grande paese, una città, che a volte ha tutta la grettezza di un posto fermo, manomesso dal deflagrare dell’ignoranza, che qui di preciso è sinonimo di dimenticare, non di non ricordare, ma di dimenticare.

La memoria, 26 anni fa ci riporta qui nel presente grazie ad un flash mob tenutosi il 7 novembre 2020 a piazza giordano tra la libreria Ubik e il bar Haiti, una performance, che non solo sta agli attori e alla loro corporatura, robusta o meno che sia, tattile, che si concentra sui sensi, sulle passioni, su quel dolore interno che solo i grandi artisti mettono fuori concentrandosi sul dentro, ma anche sul suono, sull’immagine, qualcosa di unico nel panorama foggiano. Qualcosa di unico che contiene più cose, contiene il senso di una pazzia democratica, coinvolge lo sguardo degli altri, passanti, madri e figli in passeggino, anziani e giovani alla ricerca dei dispositivi e del linguaggio divulgativo per creare qualcosa di loro, riprendere, memorizzare, dare sembianze al pubblico di teatro aperto e filmato di quella scena. Restituire la memoria. Non il ricordo, l’esperienza, il massacro. Nonostante il costruttore Giovanni Panunzio godesse di una vigilanza radio-collegata, il 6 novembre 1992 mentre sulla Y 10 percorreva via Napoli i killer gli hanno sparato più colpi di pistola, spalle, polso sinistro, gola.

C’è un microfono, una postazione vuota, presenza assenza di un’anima significativa di Foggia, un eroe del combattere, un eroe del dolore, un eroe di una generazione che ancora non si fa prigione nella parola, che ancora ad ALTA VOCE combatte la mafia, si libera dalla catene dello sporco, ribatte con la stessa voce, con lo stesso tono del proprio padre, putativo o biologico che sia, Panunzio. Ci sono delle vittime, degli attori agli inizio attoniti, coro greco, gente che si mischia nel monologo scritto da Strinati e recitato dallo Stefano Corsi, grande voce e grande attore del Teatro della Polvere. Questi attori prima in posa come metafora di un luogo, di chi non si è fatto corrompere, quel luogo verità che non è la corruzione, ma che è il paradiso degli uomini semplici, orsi, a volte bruti, che comunque, proteggono la famiglia, che la fanno mangiare, che della stessa famiglia sono padroni affettivi, gente per bene, protettori che non si abbassano a niente. Tutti attori, tutti visti dal pubblico, pubblico che diventa coro greco anche, che assolve, che pregiudica, che non si perdona, che non ha voce, o che vorrebbe avere il coraggio di averla. Pian piano sui corpi appare sangue, le campane suonano, un vecchio ceco passa con il cane a sovvertire la finzione e la realtà lessicale e primordiale del progetto, così immediato, così grande.

Gli attori, tra cui Mariangela Conte, da più di dodici anni, attrice, aiuto regista, organizzatrice, con le mani in pasta da tanto tempo, professionista a 360 gradi, che ancora impara e prende dal suo pubblico, che non ha lo sguardo corrotto dalla presunzione radical chic degli artistoidi ma che sento dire: “Mi manca molto lo scambio con il pubblico, con gli allievi, il teatro non si fa da soli, è prima di tutto un contratto affettivo, rapportuale, qualcosa che ti porti dentro anche quando ci esci, da una prima, da uno spettacolo, rimane attaccata e te la porti a casa”. Parlo con lei del teatro, di cosa ha perso e di cosa ha ricevuto dalla pandemia. “Il teatro ti da la valvola di sfogo da usare come arma attraverso il linguaggio, il parlare, muoversi recitare. La performance art ti permette invece di lavorare molto di più su te stessa, perché anziché mettere tanto, togli tutto. Diventi un gesto, che si deve portare dentro tanto, deve significare tanto. Un bambino nel passeggino e sua mamma passano, si fermano a guardare e il bambino chiede alla mamma se quello che ho addosso è sangue vero, se sono ferita. Ho pensato: se sono arrivata al bambino, posso anche arrivare alla mamma. Il bambino imparerà dal genitore, il genitore si sensibilizzerà nelle spiegazioni al bambino, quindi oltre all’empatia lo scopo della performance arte è educare i più piccoli tramite il dialogo con i grandi. Vorrei tanto che qualcuno manifestasse per il teatro, non come protesta ma come necessità, vorrei un unione in questo, una solidarietà. Il teatro della polvere ha attivato un laboratorio gratuito per un corso base, rileggere il teatro online oggi è indispensabile”.

Gaetano Valenzano, organizzatore con il regista e l’ideatore del progetto artistico Pasquale Oa, parla dei continui accordi col Comune di Foggia per rappresentare il flash mob, dei piccoli e grandi problemi per mettersi d’accordo in un periodo di piena pandemia. Non far passare l’operazione per qualcosa che non è: teatro all’aperto. Bensì rivalutare l’idea di questo progetto e di questa squadra creativa e di questi passi bellissimi fatti: “Non è un’esperienza di teatro dal vivo, è una manifestazione pubblica con misure di sicurezza da decreto. Era labile la differenza, ma abbiamo cercato di dare un tono giusto per i tempi che stiamo vivendo e per essere attivi nell’anniversario di Giovanni Panunzio, grazie all’aiuto dell’Associazione Panunzio intervenuta, rispettando le norme e privilegiando comunque l’idea che era alla base del progetto artistico. Il teatro non si può sostituire, il luogo, è fondativo, è importante.

La parola passa così con una naturalezza incredibile, come fossero una famiglia, accorti e accorati tra loro rispettando i ruoli prefissati dalla performance, pur amalgamandosi bene nei discorsi di un determinato campo e di un altro. Parlano i due bravissimi performer, Alfonsio Siani e Fabio Fabiano. “La performance ci riporta ad un essenzialismo dimenticato, a fattezze e sostanze primordiali, c’è un dolore grande nell’essenzialità dei ruoli e dei gesti, non c’è bisogno della parola e devi dimostrare tutto con il silenzio e il rispetto di quella che è stata una vittima della mafia. Sentivamo ad un certo punto, che il sangue fosse vivo e vero.”

Alfonso Siani parla della sua esperienza quotidiana di sentirsi un attore, e in negativo. “Camminiamo quotidianamente per il centro, per la piazza, facciamo servizi, i nostri sguardi sono paurosi, tutti si osservano, tutti si conoscono, tutti hanno paura di conoscerti, questo guardare continuo, come fossimo già in una performance quotidiana. C’è molta paura a Foggia, la si sente palpabile tra i gesti e le passeggiate, tutti che vogliono conoscerti, carta d’identità impressa, terrore sottaciuto, quello che fa la mafia silenziosamente da anni. Non c’è trasparenza, ci sono solo non detti”.

Interviene Alessio Verzì, tecnico del suono, che ha collaborato a stretto contatto con il regista anche per l’aspetto grafico, “Abbiamo utilizzato formati audio e video diversi montati insieme in un unico video della durata circa di venti minuti in streaming su Facebook a partire dalle sei di pomeriggio di sabato 13 Febbraio”. “Abbiamo fatto un lavoro con il suono che ci permette di rispettare qualitativamente sia il monologo dove in maniera evanescente sentiamo parlare lo stesso Panunzio con la voce di Stefano Corsi che rilegge Strinati, sia l’approccio grafico e sensoriale con gli attori, che quello con i passanti che sembrava “accedessero” e “accadessero” nell’arte consapevoli o inconsapevoli. Per ultimo, tra i vari modelli di finzione, abbiamo restituito verismo alla persona di Giovanna, la nuora di Panunzio, che dialoga con il pubblico, dopo l’accaduto attoriale dei corpi morti e sporchi di sangue. Non abbiamo ripulito la sua voce, le sue espressioni erano vere e lampanti, abbiamo lasciato la sua voce intatta, quell’A VOCE ALTA che fa vibrare il popolo, quel risuonare di una coscienza, per svegliare le coscienze altrui, come Panunzio quando per strada faceva il panettiere e gridava per vendere il suo pane caldo e avere pochi spicci in cambio.

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