ARTE MUTA

by redazione

Il labirinto nel quale ci stiamo muovendo è fatto di carne e ossa: è un essere che vive. Respira, osserva chi vi cammina all’interno, inghiotte e non espelle, muove con futili speranze e vacui stimoli vitali contro l’evidente caducità dell’esistenza. Il labirinto siamo noi stessi, esseri umani costantemente al bivio del sé e dell’ego. Spazientiti, ancora noi muoviamo illudendoci di muovere noi stessi e le cose che ci circondano alienandoci sempre più nel caos continuo dell’irragionevolezza.

Nell’oblio sostiamo, raccontandoci storie di vivida realtà, mistificando l’inspiegabile rottura con le nostre inquiete e oscure profondità relegandole ai margini di una possibile pazzia. Ci raccontiamo storie ad occhi chiusi lasciando che gli spazi del labirinto si restringano e ci costringano in una cuccia di spigoli indigesti; ci siamo allontanati sempre più da quella piccolissima e vibrante parola che è: natura. Aggregati noi stessi come pezzi di contorno al piatto principale di questo banchetto universale che è la noia, sopperiamo a causa delle dinamiche di mercificazione che hanno spolpato la nostra vita, invadendo barbaricamente, quella “terra di mezzo”, tessuta in un tempo inviolabile, che è sempre stata costituita da quel patrimonio poetico non-visible che solitamente identifichiamo col termine “arte”.

L’etica dell’arte è l’estetica che, attraverso la bellezza, ci conduce verso la conoscenza del Mistero, dell’indicibile che alberga in noi. Tradire la natura delle arti dal vivo, teatro, danza, musica, in tutte le loro forme possibili, trasmutandole in un mondo virtuale, approfittando, forse, della nostra civiltà sgomenta, significa tradire noi stessi, l’essenza del legame che ci trasforma in quel rito che si compie nell’istante. Arte, direi, che si fa muta, nel tacere tipico dell’imbarazzo scioccato di chi, l’artista, solitamente vede e non vuol fingere che il suo – sesto – senso sia perduto nel vortice dei logaritmi. Con grande e men che decennale velocità, abbiamo subito leggi e decreti volte a reificare anche gli artisti, in un meccanismo produttivo aberrante che ha deflorato il tempio e il tempo dell’incanto e della poesia suprema. Che l’ecologia debba convincere l’economia d’esser sua sorella, è opera di convinzione ardita ma imprescindibile. E non è ecologico chiamare la propria casa con un altro nome.

I mestieri delle arti dal vivo non possono traslocare su una piattaforma virtuale, pur continuando a chiamarla “teatro”. Che senso avrebbe, ormai? Di teatro non ci sarebbe nemmeno l’ombra. Quest’altra casa, chiamiamola con un altro nome, col suo proprio nome. Io propongo: “web drama”. Col teatro manterrebbe un rapporto di somiglianza eppure teatro non sarebbe. Sarebbe casa, sì, nuova, dove poter sperimentare altri linguaggi e indossare altre pelli ma il teatro, no, per favore, lasciamolo lì dove è sempre stato perché è lì che potremo ritrovarlo. Altrimenti, l’arte, resterebbe ancora ammutolita di fronte alla scarnificata preghiera delle creature in preda alla disperazione per aver visto profanato il “luogo del non-luogo”, latebra senza sentieri, dove le creature possono respirare segretamente l’ineffabile miniatura di un sogno tutto privato e questo luogo può essere abitato soltanto lì, a teatro, nel teatro, mentre vivo con chi mi sta raccontando una storia, con chi danza la sua poesia, con chi suona la sua orchestra. Cavalca i nostri incubi, urlando l’agghiacciante verso della comicità, il mostro che inghiotte le nostre paure; le metafore si susseguono in forma di incendi, rivoluzioni, terremoti, epidemie e rincorrono l’uomo anfanato sul suo conformismo, in giacca e cravatta, pronto a salire sul prossimo palcoscenico virtuale, nella sorridente cecità d’un cespuglio infuocato, l’ultimo avamposto di quei sogni selvatici e scimmieschi che erano la sua autentica verità, stringendo in mano lo scettro del potere: l’ennesimo premio – non commestibile – della critica specializzata. Senza il teatro, dove porteremo le nostre pene, per sublimarle in quello spicchio di grazia e di misericordia che è la nostra vittoria su noi stessi e sulle nostre angosce?

Andrea Cramarossa

*Brevi indicazioni artistiche.

Andrea Cramarossa lavora costantemente in teatro da trent’anni. Dal 2003 si occupa esclusivamente di ricerca e sperimentazione soprattutto in campo teatrale e performativo. Nello stesso anno fonda il gruppo di ricerca teatrale “Teatro delle Bambole” . La sua ricerca si fonda sulle relazioni tra suono e corpi, custodendo la tradizione degli insegnamenti di Gisela Rohmert e Hermann Nitsch. Riceve numerosi riconoscimenti per la sua dedizione in ambito artistico e, ultimamente, parte della sua esperienza artistica è stata inserita in “Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea” di Napoli, assieme  al Living Theatre e a John Cage.

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